La Corte Costituzionale ha fissato per il prossimo 24 Gennaio la decisione sull’illegittimità costituzionale della Legge elettorale vigente, il c.d. Italicum. Si è osservato che, di fatto, fino ad allora il Presidente della Repubblica avrebbe le mani legate; poiché, se non formalmente proibito, sarebbe però sommamente inopportuno uno scioglimento delle Camere, mentre si attende una decisione sul “modo” delle prossime lezioni. Sciogliesse le Camere subito, verrebbero subito convocati i c.d. comizi elettorali, e si voterebbe con una legge elettorale che potrebbe poi essere dichiarata incostituzionale. E si tornerebbe ad esporre il Parlamento all’accusa di essere “illegittimo”, con l’intera sequela di questioni politiche connesse. Perciò, bisogna attendere.
Tuttavia, il potere di scioglimento delle Camere è prerogativa essenziale del Presidente della Repubblica; e, nella delicata contingenza delle consultazioni per formazione di un nuovo Governo, l’unica che gli consenta di esercitare la sua moral suasion; senza, il “Garante della Costituzione”, è alla mercè dei suoi interlocutori. Questa condizione ha indotto a parlare di “Repubblica Giudiziaria Tecnocratica”: la formula è di Claudio Petruccioli, parlamentare e politico di lungo corso, Direttore de L’Unità e Presidente Rai, comunista, e, poi, Democratico di Sinistra. Sebbene, limitarsi al presente, per una figura pubblica con quella storia, lasci piuttosto dubbiosi circa la reale volontà di affrontare il bubbone. D’altra parte, è coda definitoria superflua e, anzi, sposta il focus dell’analisi. Basta “Giudiziaria”. Per intenderlo, sarà sufficiente considerare brevemente “la carne e il sangue” della questione di legittimità del c.d. Italicum, senza soffermarsi unicamente sul “giuridico” che avvolge e nasconde la questione medesima.
Alla Corte Costituzionale si può chiedere di stabilire se una legge sia più o meno conforme a Costituzione, in due modi: o per la via “politica”, cioè, nel lessico giuridico, “in via principale”; o per la via giurisdizionale, o “in via incidentale”. La prima è “politica”, perché è proposta direttamente dal Governo o da una Regione; la seconda è giurisdizionale, perché è “sollevata” da un giudice. La via dei giudici, quella “incidentale”, convoglia la quasi totalità delle questioni. Sembra tutto chiaro.
Ma già poco fa dicevo “più o meno conforme”. Come fa, una legge, ad essere “più o meno conforme”? La Corte Costituzionale, nel corso degli anni, un pò alla volta, lo ha reso possibile: giacché, oltre a decidere di estromettere una legge dall’Ordinamento, o di mantenervela, può “reinterpretare” la legge sospetta; la lascia dov’è, ma subordina la sua permanenza all’esclusiva interpretazione che essa Corte impone; oppure, la estromette, ma non del tutto, perché ne “salva”, con la sua “interpretazione”, una parte. E questa interpretazione può consistere in una sottrazione (si toglie il pezzo che non serve più), e sono le sentenze c.d. “manipolative” (sì, proprio questo è il nome); o in un’addizione (sentenze c.d. “additive”, si aggiunge una protesi); l’ineffabile sonorità è “sentenze nei sensi di cui in motivazione”. Perciò, in questi casi, si introduce un senso normativo non coincidente con la lettera. Questo breve excursus per dire che, già solo considerando i poteri della Corte, peraltro, autodefiniti in corso di esercizio, la limpidezza della questione di costituzionalità e, con essa, la limpidezza della distinzione fra “via politica”e “via incidentale” trascolora all’istante.
Muniti di questa fiaccola, avventuriamoci ora lungo il tracciato delle due “vie”.
In astratto, un Organo Giudiziario non “solleva” la questione “in proprio”, come fa il Governo o una Regione, al di fuori di una formale controversia giudiziaria; ma solo proprio perché una delle parti, che ha proposto una causa, afferma che un suo diritto sarebbe compromesso da una legge vigente, ritenuta in contrasto con la Costituzione. “Causa” può essere sia un processo civile, che un processo amministrativo, che un processo penale. E, pertanto, “parte”, nel cui interesse la questione è posta, può essere tanto un privato, che un Ente, pubblico o privato, nelle cause civili e nelle amministrative; in quelle penali, al novero delle “parti” va aggiunto un Pubblico Ministero. La “via” è “incidentale” perché la questione “incide” sulla causa in corso: ci vogliono, e ben separate, da un lato, la questione di legittimità costituzionale che “incide”; dall’altro, la causa che ne è “incisa”.
Ora, cos’è accaduto, con il c.d. Italicum? Due Tribunali, il Tribunale di Messina, e il Tribunale di Torino, hanno “sollevato” la questione. Ma qual’era la causa “incisa”? E acqui està el busillis, suggerirebbe Manzoni. Tutto si gioca, per così dire, su quel latinorum: “incidentale”. Ed è proprio attraverso tali “garbugli” preliminari che passa quel confine sottile e scivoloso, varcato il quale, si apre il varco alle usurpazioni istituzionali. Il “merito”: premio di maggioranza, base regionale, preferenze, sbarramenti, è, all’evidenza, di squisita natura politica; ed è ciò che rischia di essere deciso dove non dovrebbe: in un “Anticamera”, e non alla “Camera”. Proprio grazie a queste “manovre” preliminari. Le uniche di cui, pertanto, converrà occuparsi. Vediamo.
A Messina, la “causa” è stata proposta da 11 “parti”: tre di queste, l’On. Francesco D’Uva, l’On. Alessio Villarosa, e l’On. Valentina Zafarana (quest’ultima alla Regione Siciliana), sono esponenti politici del M5S; due altri, sono docenti universitari in quella Università, e altri sono avvocati, ma, in quella sede, ricorrenti in quanto cittadini.
A Torino, la “causa” è stata proposta da 18 “parti”; ne cito qualcuna: “Ciotti Lugi Pio”, universalmente noto come “Don Ciotti”; Diego Novelli, storico sindaco comunista della città e poi con la “Rete” di Leoluca Orlando; Livio Pepino, già magistrato, esponente di spicco di Magistratura Democratica (ne è stato Segretario dal 1991 al 1996, e poi Presidente dal 1998 al 2005), componente del CSM dal 2006 al 2010; gli altri, sono quasi tutti docenti universitari, in vari settori disciplinari.
Sia a Messina che a Torino la “causa” è stata proposta in via d’urgenza, ai sensi “dell’art 702 bis” del Codice di Procedura Civile, è scritto. Perché si possa invocare l’urgenza, secondo quella norma, sono necessari due requisiti; uno è che la “causa” sia suscettibile di “cognizione sommaria”, cioè si possa decidere agilmente, ma non “superficialmente”, ci si tiene a precisare; l’altro è che la “causa” non sia di competenza del “Tribunale collegiale” (il Tribunale, per decidere su alcune materie, “si compone” di un singolo magistrato, per decidere su altre, di tre: appunto, il c.d. “collegio”). Ci sono tre problemi.
Primo problema. Il requisito dell’urgenza e della “sommarietà”, che non significa “superficialità”. Basti rilevare che, sia a Messina che a Torino (curiosamente, entrambe le ordinanze sono di 34 pagine), hanno preso in esame, tra sentenze e ordinanze, venti precedenti provvedimenti della Corte Costituzionale (dalla n. 87 del 1953 alla 236 del 2010); inoltre, si è ovviamente considerato il “dibattito dottrinario seguito alla approvazione della legge”; infine, danno atto, altrettanto ovviamente, di complesse scelte valutative :“…Si ritiene maggiormente convincente questa seconda corrente di pensiero”. Tutto questo, già da solo, pare ampiamente sconfessare la pretesa sommarietà dell’esame, connessa alla ritenuta “urgenza”.
Secondo problema. La faccenda della competenza che, solo se monocratica ulteriormente giustificherebbe l’urgenza. A Messina, hanno scritto: “Ritiene il Collegio che la questione prospettata in giudizio…rientri tra le ipotesi per le quali è prescritta la composizione collegiale del tribunale..”. A Torino hanno scritto che la causa “…non ricade nell’ipotesi…che riserva al Collegio la decisione delle cause nelle quali sia obbligatoria la partecipazione del P.M.” A Messina, bianco; a Torino, nero. O in un caso, o nell’altro, l’urgenza è stata ammessa, e non si doveva.
Terzo, e maggior problema. C’è, o no, una “causa” “separata” dalla questione di legittimità costituzionale” (per es: si discute di uno sfratto, e il proprietario sostiene che le norme sono irragionevolmente restrittive del diritto di proprietà)? Che ci sia o meno, non è dubbio “da pigliare a gabbo”, direbbe appunto il poeta; perché la garanzia che la Corte Costituzionale non finisca col prendere il posto del Parlamento (dunque, si faccia essa, da giudice, per quanto sommo, “Sede della Sovranità”) è proprio questa: che essa sia investita sì, di un giudizio su una Legge, ma solo perché quella legge ”incide” su una questione “particolare”, la “causa”; e non invece come legge in sè, cioè atto di valore “generale”: il “generale”, in quanto tale, è, e dovrebbe rimanere, attributo esclusivo del Parlamento.
Poiché sia a Messina che a Torino non c’era una “causa” da “incidere”, si è posta la questione. Non si discute, scrivono entrambi i Tribunali, che una “causa” ci debba essere. E che, in questo caso non si vede, questa “causa” da “incidere”. Ma, eccoci: e attenti al latinorum. Questa “causa” da “incidere” non c’è, ma è come se ci fosse. Perché i ricorrenti, scrivono i giudici, pur investendo direttamente una legge, (appunto il c.d. Italicum), non stanno andando fuori del seminato e, con loro, essi medesimi giudici che hanno posto la questione. Infatti, proseguono i Tribunali “rimettenti”, le “parti” non pongono una questione astratta (o generale); cioè “…di non poter esercitare (nelle prossime elezioni) il diritto fondamentale di voto…”; ma ne pongono una concreta, chiedendo “…di rimuovere un pregiudizio che invero non e’ dato da una mera situazione di incertezza ma da una (già avvenuta) modificazione della realtà giuridica”. Sembra tutto risolto.
Calma e gesso. La parola chiave è, infatti, “incertezza”. Incertezza per il futuro, uguale questione generale, e non si può, scrivono i giudici; al contrario, “certezza”, cioè “già avvenuta modificazione della realtà” (lesiva, in ipotesi), si può. C’è la “certezza” o “particolarità” della lesione, dunque, c’è la “causa”. Ecco perché noi possiamo, concludono. Ma quando mai?
Ricordate la faccenda dell’urgenza, e della competenza del Tribunale monocratico, che sola la consentiva? Anche a volere accantonare il bianco/nero sopra visto tra Messina e Torino, quest’ultimo Tribunale, per meglio precisare che si trattava proprio di materia da giudice monocratico, aveva comunque anche scritto che non si trattava di “diritto di voto” in quanto tale: nelle loro parole, di “status giuridico di elettore”; ma di “portata”, cioè di minore o maggiore ampiezza del diritto di voto stesso. E che il punto era proprio “la portata”, che era dai ricorrenti ritenuta “incerta”: “…i ricorrenti hanno esposto chiaramente di voler proporre un’azione finalizzata all’accertamento della portata del loro diritto di voto, ritenuta incerta…”. Per “misurare” questa benedetta “portata” del diritto di voto, si fa ricorso al pacifico concetto di “accertamento”. Era “incerta” e chiedevano “certezza”. Ma se le cose stavano così, stavano al contrario di quanto appena sostenuto: e, cioè, che, essendo la “causa” volta a rimuovere una “già avvenuta modificazione della realtà”, cioè certa, non si promuoveva una questione “generale”, ma “particolare”; e perciò la Corte Costituzionale non era chiamata fare il Parlamento, ma semplicemente la Corte.
Se c’è la “certezza negativa”, relativa alla lesione dello “status di elettore”, non si poteva sollevare la questione in via d’urgenza: perchè la ”causa” da “incidere” (quella che-non-c’è-ma-è-come-se-ci-fosse) sarebbe stata da Tribunale Collegiale. Se invece c’è “incertezza”, concernente la misurazione della “portata” del “concreto” diritto di voto, si poteva agire d’urgenza: ma mancherebbe proprio quella “certezza” o “concretezza”, sia pure negativa, che sola può evitare alla Corte Costituzionale di “diventare Parlamento”. Non se ne esce.
Perciò, quando a Torino (ma anche a Messina, poiché le parole qui sono quasi le stesse) scrivono “…deve pertanto escludersi, anche nel presente caso, che la proposta questione di costituzionalità esaurisca in sé ogni aspetto della controversia di merito…” mostrano il nervo scoperto, ma senza curarsi di richiudere la ferita. In ogni caso, le cose stano così. La “causa”, la questione che “esaurisce la controversia”, e ogni altra che vi piaccia di inseguire. Tutto: “c’è, ma non si vede”. La magistratura come Motore Immobile.
L’Accademia, la Piazza; il diritto tortuoso e naturalmente cortigiano. E un certo passato dell’Italia, che sembra volgersi ad un certo futuro dell’Italia: sommessamente, questo pare non possa escludersi.