Notizia minore. Roberto Benigni ha violato il Codice della Strada. Giovedì mattina era in colonna, aveva fretta, si è spostato sulla corsia di marcia opposta, contromano, ed è stato visto da una pattuglia della Polizia Municipale di Roma; fermato, pare abbia tentato di giustificarsi, forse avrà anche tradito insofferenza mista ad afflizione, ma senza successo discolpante: sanzione pecuniaria e sospensione della patente, per un tempo variabile fra uno e tre mesi, secondo quanto è stato diffusamente riportato da pressocchè tutti i media. Qui rileva che gli è accaduto quanto può capitare a chiunque. E Roberto Benigni, premio Oscar e molto altro, si è condotto come chiunque altro.
In questi termini, la vicenda sembra restituirci un personaggio pubblico ricondotto a quella misura di normalità, che fama e meriti artistici quasi fisiologicamente superano. E anzi, il particolare, pur fin qui non confermato, ma che ci è agevole supporre plausibile, secondo cui egli avrebbe tentato di giustificarsi, forse pure impazientendosi, rendono quel “rientro” alla normalità più vivido, credibile e significativo.
E’ ovvio, ed anche ragionevole, prevedere che Benigni troverà il modo di versare le somme dovute, e di farsi condurre dove gli serve anche senza patente, su mezzo proprio o altrui. Nessuno stupore, onestamente. Ma fino a questo momento, sono passati quasi due giorni, e non consta che Benigni sia intervenuto sulla faccenduola, fosse anche con una sola parola. Questo è il punto.
Non si allude a pubblica contrizione, o a qualche sublimazione autoironica dell’accaduto. Scriveva un grande giurista e filosofo, Carl Schmitt, che lui non amava la confessione, né come genere letterario, né come strumento di indagine conoscitiva; e che quando doveva farne una, andava dal parroco. No, qui Roberto Benigni avrebbe potuto, potrebbe, fermarsi; e, forte, anzi arricchito da questa sua personale esperienza, così rivolgersi agli altri. Rivolgersi, esporsi, rendendosi testo alla lettura degli altri: come fa da oltre quarant’anni, per sua personale e riconosciuta vocazione.
Perchè proprio qui l’occasione è propizia, sarebbe propizia, per affermare non che l’errore dell’individuo, eretto a Personaggio Pubblico, costituisce quello che una volta avremmo chiamato “un cattivo esempio”; ma che, esattamente al contrario, da quelle altezze, da quella condizione, è certo “di buon esempio” intendere la radice comune dell’errore; e riconoscere, con tutte le vibrazioni emotive e intellettive concesse dall’estro artistico, che la capacità di errare accomuna più di quanto non divida.
Di fronte alla censura, di fronte al potere di castigare, fosse pure solo simbolicamente, l’uomo reagisce, tenta un disconoscimento: e, prima ancora, se stretto dalla necessità, fosse pure quella di un banale ritardo per una qualsiasi urgenza in una qualsiasi giornata, sentendosi isolato ed impotente, egli cerca una via sua: perchè, ripiombato nel suo fondo istintivo, avverte che le regole possono nuocergli. Ecco la radice comune, ecco la lezione che, dal fatto minimo, potrebbe nutrire capacità di comprensione, senza per questo, nicchiare con il deliquio anarchico, con la sfrenatezza: una parola leale, infatti, neutralizzerebbe tutti i possibili ed equivoci sottesi al silenzio fin qui serbato. E preverrebbe l’impressione di essere passato dal “tutti al muro”, magari evocato fra labbra dischiuse al sorriso, al “todos caballeros”, sia pure masticato nel silenzio più sfuggente.
E’ noto che una velenosa filigrana sempre più serpeggia nella vita pubblica italiana: proprio a partire dal malsano convincimento, inoculato da certo malvezzo procuratorio e giudicante, che l’errore, qualsivoglia, non sia umano, ma disumano; che la sanzione dovrebbe mettere capo ad una via senza ritorno nel comune consorzio: o per fisica espulsione o, più efficacemente, per funzionale e perpetua degradazione: hai sbagliato, non sei più.
E dal minimo al massimo, dal Codice della Strada al Codice Penale, sempre più alto si leva un sottofondo gutturale, che implica l’impossibile separatezza fra chi gli errori “li subisce” e chi gli errori “li fa”. E tuttavia, ogni giorno di più, sempre più falsamente ed insistentemente pronunciata, scritta, recitata.
Dante, mosse da un errore suo proprio, la selva, la sua “crisi esistenziale” avrebbero potuto chiamarla seicento anni dopo: ma lo scandaglio, il riconoscimento, avvennero prima che aprisse bocca. Poi, terzina dopo terzina, ci racconta non un suo sterile e narcisistico tormento solipsistico; ma leva il più poderoso inno all’uomo-che erra mai concepito e, forse, mai più concepibile a queste altezze sublunari. E con la potenza della sua fantasia, con la dovizia della sua penetrazione intellettiva, lui, pellegrino oltremondano, tende la mano ad ognuno che legge, ad ognuno che ascolta; e finisce col rendere pellegrino l’umanità intera, che solo si può riscattare nella comune e reciproca accettazione della capacità di errare. Il potere di punire, man mano che il reciproco riconoscimento dell’uomo verso l’uomo si compie, si fa diafana possibilità; e ad esso subentra il consegnarsi fiducioso ad una superiore intelligenza, che sappiamo ci comprende, con un amore tangibile e personale, e da cui, per questo, non si volge lo sguardo, e non si tenta, disconoscendone l’autorità, di svicolare.
Il carattere precipuo della Costituzione Italiana è nell’avere posto a suo nucleo fondante non la generica personalità dell’uomo: ma l’uomo in carne ed ossa, uno per uno: a cominciare dalla sua capacità di errare. Per questa fondamentale ragione tutte le sue libertà sono custodite e protette da un limpido e sontuoso muro di cinta, costituto dai limiti che le Istituzioni incontrano nella loro ricerca dell’errore individuale. Se non ci fosse una pre-comprensione dell’errore come caratteristica comune a tutti, il nostro Patto Fondamentale non sarebbe nato, a partire dalle limitazioni poste al potere delle Istituzioni verso la singola persona; ma, postulata la natura eccezionale della capacità di errare, all’inverso, sarebbe nato a partire dalle facilitazioni e dalle agevolazioni verso quel potere. Non avremmo avuto come nostra essenza civile e culturale la paziente condivisione e l’assidua smussatura di una comune natura; ma l’amputazione rapida dell’escrescenza infetta.
Quando si inverte questo ordine, il timore o l’insofferenza verso l’autorità sanzionatoria, escono, confusamente, ma inevitabilmente, a compensare l’impostura.
Benigni lo ha constatato di persona. Se non ha avuto timore di divulgare i suoi commenti alla Divina Commedia, alla Costituzione; se non ha veramente parlato senza capire ciò di cui parlava; se vuole lasciare un segno da uomo e da artista, si faccia sentire, ci parli di sè e dell’errore dell’uomo Benigni.