Nel film “Elf”, il personaggio principale, interpretato dall’attore comico Will Ferrell, è un giovane (umano) cresciuto al Polo Nord e allevato da Babbo Natale e dalla sua schiera di elfi incaricati di costruire i giocattoli che verranno poi consegnati ai bambini di tutto il mondo.
Grazie a questa singolare adolescenza, Buddy (è questo il nome del protagonista…) viene cresciuto in un ambiente di totale armonia, idealismo e altruismo che lo rendono, al tempo stesso, una delle persone più buone e più ingenue del pianeta. Da questi tratti caratteriali si sviluppa l’effetto comico del film quando il giovane “elfo”, lasciato il Polo Nord alla ricerca del padre naturale, giunge in quella capitale di cinismo, individualismo e prevaricazione che è la città di New York.
Una delle scene più esilaranti del film si verifica quando Buddy, al suo arrivo a Manhattan, passa davanti ad un caffè il cui cartellone pubblicitario invita i passanti ad entrare per assaggiare “The world’s best cup of coffee!”: una tazza del “caffè più buono del mondo”. Dall’alto della sua totale ingenuità, Buddy interpreta in maniera letterale le parole del cartellone, ignorando del tutto l’iperbole del messaggio pubblicitario e precipitandosi all’interno per congratularsi con i proprietari per aver ottenuto un risultato così difficile e prestigioso.
La capacità di interpretare un’informazione pubblicitaria comprendendo in maniera adeguata il suo aspetto iperbolico, le esagerazioni e, in molti casi, l’evidente falsità del suo messaggio letterale è un istinto relativamente facile nelle dinamiche della comunicazione sociale. E’ chiaro che la frase “una Milano da bere” non significa assolutamente nulla; chi “ha naso” non sempre sceglie la birra Dreher e per difendersi dal logorìo della vita moderna ci vuole ben altro di un aperitivo a base di carciofo.
Eppure da un secolo a questa parte, l’informazione pubblicitaria continua a sciorinare frasi senza senso muovendosi in quella zona eticamente grigia situata nel punto di intersezione degli interessi commerciali aziendali, il significato letterale degli slogan pubblicitari di cui si serve e la realtà effettiva dei prodotti che questi slogan fingono di descrivere.
Un’obiezione legittima a questo discorso è che lo scopo ultimo degli slogan e degli spot pubblicitari non è quello di “informare” (nel senso strettamente esplicativo del termine) i potenziali acquirenti sulle caratteristiche effettive di un prodotto quanto piuttosto quello di mettere al corrente il maggior numero possibile di persone dell’esistenza del prodotto stesso veicolando i loro messaggi attraverso lo slogan, il motivetto musicale o l’immagine sensuale che da sempre accompagnano gli spot e che devono essere abbastanza accattivanti da agire come una sorta di “supposta” psicologica utilizzata per introdurre ed ancorare nella mente del consumatore una consapevolezza, per quanto totalmente superficiale, della merce. Il fine della pubblicità quindi è puramente quantitativo piuttosto che qualitativo.
Negli ultimi decenni inoltre, il problema è stato ulteriormente esacerbato dalla crescita esponenziale della complessità della realtà che ci circonda.
Ogni aspetto della nostra vita individuale e dei sistemi che regolano la vita sociale, è diventato più complesso e difficile non solo da navigare ma anche solo da interpretare in maniera adeguata. La valanga di “informazione” diventata improvvisamente disponibile con l’avvento di Internet e dei social media rischia di trasformarsi in un’inestricabile cacofonia di dati nella quale diventa impossibile distinguere il vero dal falso o il serio dal faceto.
In circostanze del genere, il linguaggio della pubblicità, con la sua enfasi sulla superficialità descrittiva, e sul richiamo emotivo piuttosto che razionale, diventa paradossalmente più efficace e, allo stesso tempo, più distruttivo per la convivenza sociale quando, proprio come un virus che compie il fatidico “salto” dal mondo animale a quello dell’uomo, passa dallo spaccio delle merci a quello della dialettica politica.
Non che il linguaggio del marketing sia nuovo alla politica, anzi, queste tecniche di persuasione sono state utilizzate ampiamente in passato con questo proposito. E tuttavia l’avvento di un personaggio come Donald Trump segna un mutamento strutturale qualitativamente nuovo: il passaggio ad una nuova era nella storia millenaria della manipolazione sociale ai fini della creazione del consenso politico.
La novità introdotta da Trump nel corso dell’attuale campagna presidenziale è che, per la prima volta, almeno nella storia della politica americana, un candidato non cerca semplicemente di auto-promuoversi utilizzando il linguaggio proprio della pubblicità ma si propone invece come vero e proprio “prodotto” e, come tale, annullando l’aspetto semiologico (cioè legato alla comunicazione verbale e al significato delle parole) della sua auto-promozione in favore di quello semiotico (legato alla comunicazione simbolica; non-verbale) per spacciare all’opinione pubblica la sua presunta idoneità.
Quello che conta per una campagna pubblicitaria che voglia promuovere efficacemente un determinato prodotto sono la ripetitività del messaggio trasmesso, l’uso strumentale di valori culturali ben radicati nel segmento demografico al quale ci si rivolge (nel caso della Destra americana quel tipico machismo arrogante, violento e intriso di anti-intellettualismo) e la sua capacità di restare quanto più a lungo possibile sotto i riflettori dell’opinione pubblica. L’accuratezza, la veridicità e l’importanza dell’informazione fornita hanno un peso del tutto secondario poiché, per sua stessa natura, uno spot non deve far altro che ripetere ad oltranza lo stesso messaggio anche di fronte all’evidenza palese della sua infondatezza. Una tecnica nella quale Donald Trump si è rivelato, indiscutibilmente, un maestro.
Tradizionalmente, la cattiva reputazione dei politici si ricollega alla loro tendenza, una volta giunti ad occupare la fatidica poltrona, a non mantenere le promesse fatte in campagna elettorale; in altre parole, al divario tra le le dichiarazioni d’intento e la realizzazione concreta dei programmi annunciati.
Per corroborare le sue risibili promesse elettorali, Trump non solo non si scomoda neppure a fornire alla pubblica opinione i dettagli delle sue proposte, ma non avverte nemmeno la necessità di esprimersi in frasi sintatticamente sensate o logicamente coerenti. Il suo messaggio principale ricalca quello scarno ed essenziale di una famosa pubblicità di jeans degli anni 70: “Chi mi ama mi segua”.
In aggiunta al fatto di non sentirsi in dovere di fornire all’elettorato alcun dettaglio sul modo in cui intende realizzare i suoi “programmi” politici, Trump non tenta neanche di occultare la sua abissale ignoranza e incompetenza negli affari internazionali presentandola invece come una virtù legata alla sua estraneità alla politica tradizionale.
In una situazione di questo genere, la cosa più strabiliante è rappresentata dal seguito popolare che un ciarlatanismo di questo genere riesce, nonostante tutto, a suscitare nell’anno 2016.
E’ chiaro che, ad eccezion fatta per l’indole bonaria e altruista del personaggio di Buddy, la porzione dell’elettorato conservatore che sostiene Donald Trump, è proprio come il protagonista del film: affetta da una sconcertante credulità tipica di quel segmento della popolazione che rappresenta da sempre il bacino elettorale della Destra americana e che comprende i gruppi meno colti e istruiti del tessuto sociale disposti ad accettare per buone le più assurde interpretazioni della realtà. Se i Democratici pensano di “convincere” queste persone con la logica e con l’evidenza dei fatti commettono un grosso errore di valutazione perché utilizzerebbero degli strumenti intellettuali su un gruppo sociale che ne è immune per definizione.
Accanto a questi gruppi tuttavia, ce ne sono altri che, pur consci del suo ciarlatanismo e della sua incompetenza, continuano a sostenerlo perché rappresentano quella porzione dell’elettorato in qualche modo consapevole del fatto che Trump è, prima di tutto, un prodotto; un prodotto che loro hanno deciso, malgrado tutto, di “acquistare”.
Per questa gente, il magnate newyorkese costituisce il “piccone” con cui fare a pezzi il bizantinismo di Washington e di un sistema politico che non comprendono ma che percepiscono come distante, auto-referenziale e totalmente indifferente alle loro sorti.
Incapace di comprendere i meccanismi della globalizzazione, delle profondissime trasformazioni sociali, politiche ed economiche che hanno aumentato la complessità del mondo negli ultimi vent’anni, questa parte della società americana ha portato a compimento, con l’avvento di Donald Trump, quel processo già iniziato otto anni fa con l’ascesa del Tea Party e che consiste nell’identificazione, vera o fittizia che sia, di “colpevoli” a cui attribuire la “responsabilità” di questi problemi.
Come sempre, nella storia dell’umanità e della psiche collettiva conservatrice, il “colpevole” è lo “straniero”. Uno straniero rappresentato, volta per volta, dagli immigrati clandestini che “rubano posti di lavoro agli americani”, dai lavoratori dei paesi in via di sviluppo che spingono le aziende americane a delocalizzare e dai rifugiati islamici che, da una parte, chiedono aiuto all’America e all’Occidente mentre, dall’altra, cospirano per distruggerli.
In una situazione di questo genere, l’avvento di Trump è il sintomo di un nichilismo politico e ideologico che se dovesse continuare a diffondersi, potrebbe mettere in crisi addirittura i pilastri del modello democratico perché, come diceva un mio professore parafrasando con grande libertà una famosa frase di Winston Churchill, “con la sua enfasi sulle scelte della maggioranza, la democrazia è il miglior modello sociale di cui disponiamo ma diventa inevitabilmente problematica quando la maggioranza è formata da idioti”.