Il Presidente del Consiglio, Matteo Renzi, a proposito del Disegno di Legge sulla riforma del Processo Penale, in atto pendente al Senato, un paio di giorni fa ha dichiarato: “Tendenzialmente mi sentirei di escludere la fiducia”.
E’ qui superfluo soffermarsi sui singoli punti del Disegno di Legge: perchè quella che, per di più, è solo una proposta, sulla scorta di quelle parole, pare essersi avviata ad un binario morto. Basti perciò dire, per il nostro ragionamento, che l’idea era di precisare, anche solo simbolicamente, i tempi di prescrizione, e di avviare un qualche timido riequilibrio sullo strapotere di intercettazione (Senza contare che il temuto indebolimento della “risposa penalistica”, risulterebbe malamente compensato da una quantità di irresponsabili e propagandistici aumenti sanzionatori).
Nondimeno, tanto è bastato al Presidente dell’ANM, Piercamillo Davigo, per affermare: “Riforme condivise sulla giustizia? No, nell’ipotesi migliore sono inutili se non dannose”.
E tanto basta anche a noi, si parva licet.
Pertanto, scrivo subito che la regola aurea, l’unica vera ragion d’essere, del nostro sistema processuale, è l’arbitrio: assoluto, incontrollato, legittimato. Ed essendo radicalmente arbitrario, vale a dire, tirannico (caso mai si volesse fingere di non intenderlo), esso sistema riesce ad essere sommamente ingiusto, simultaneamente, verso tutti: vittime e carnefici. Purtroppo è fin troppo facile trarre dall’aggiornamento quotidiano di questo scempio, esemplificazioni e conferme. In queste stesse ore, l’ex On. Ilaria Capua, la biologa di fama mondiale trascinata in un’ennesima corrida giudiziaria, dimettendosi dalla carica, nella sua lettera all’Assemblea ha, tra l’altro, rilevato: “È stato per me un incubo senza confini ed una violenza che non solo mi ha segnata per sempre, ma che ha coinvolto e stravolto anche la mia famiglia.
Perciò, se scrivo che l’essenza del processo penale italiano è l’arbitrio: assoluto, incontrollato, legittimato, mi limito alla decenza minima.

Tuttavia, la fama e il ruolo pubblico dell’involontaria cavia, vengono talvolta abusati come schermo, per distogliere l’attenzione da questo arbitrio incessante e distruttivo. Sicchè, al fine di illustrare ulteriormente l’assunto, riproporrò due vicende, in parte già da me affrontate: una nota, l’altra meno, che riguardarono “persone normali”.
La vicenda nota va letta tenendo presenti le seguenti parole del dott. Davigo, pronunciate nella stessa occasione in cui ha fatto misuratamente capolino la dialogica valutazione di “inutilità”, se non “dannosità” della proposta di riforma: “…l’idea che scaduti i tre mesi, i procuratori generali debbano avocare a sé i procedimenti, significa che un numero enorme di procedimenti verrà trasferito dalle procure alle procure generali, le quali non hanno affatto i magistrati per farlo e quindi finiranno per dover applicare magistrati di primo grado.”
Ci si riferisce ad una norma contenuta nel Disegno di legge contestato, per cui, scaduti i termini delle indagini preliminari, la Pubblica Accusa verrebbe obbligata a presentare le sue conclusioni: o chiede il rinvio a giudizio, o l’archiviazione. Allo scopo di prevenire una stasi, si prevede un potere di avocazione, cioè di sostituzione di un ufficio (presso il grado di Appello) ad un altro (presso il primo grado).
Ciò precisato, tempo fa scrivevo: “…Annamaria Franzoni, dopo sei anni e undici mesi circa, ha esaurito la sua reclusione in carcere; seguirà un periodo di restrizione domiciliare, concluso il quale, anche questa pendenza formale non sarà più. Ha ucciso suo figlio di tre anni, così è scritto nella sentenza definitiva. Probabilmente colpendo il cranio con un colpo contundente, essendo stato rinvenuto morente con reliquati cerebrali visibili sul cuscino. Non è stata ritenuta inferma nè seminferma di mente. E’ stata ritenuta pienamente capace di intendere e di volere. Un’altra sentenza l’ha pure condannata per calunnia e frode processuale contro una persona coinvolta senza ragione nella vicenda. Sicchè è stata ritenuta anche capace di macchinazioni deliberate.
Però la Corte d’Assise d’Appello di Torino ha dimezzato ugualmente la pena inflitta in primo grado, 30 anni, perché ha ritenuto Annamaria Franzoni, pur omicida in questi termini del figlio Samuele, meritevole delle ‘circostanze attenuanti generiche’. Sedici anni, perché ha ucciso sapendo quello che faceva. Il Sostituto Procuratore Generale non propose ricorso in Cassazione, perché, come volle pure dichiarare alla stampa, ritenne quella pena dimezzata ‘giusta’. Il Capo dell’ufficio, Dott. Giancarlo Caselli, pur potendo, non si discostò dalla rinuncia all’impugnazione.
Le circostanze attenuanti generiche sono una sorta di bonus, ad assoluta discrezione del giudice che, scribacchiando poche paroline precompilate, sempre le stesse in ogni processo da Aosta a Lampedusa (incensuratezza, contegno processuale, particolare circostanze del caso, e così via) può in realtà incidere in così vasta misura sul reale significato di un accertamento giudiziario. Lo stesso vale quando non le concede. Giacchè ognuno vede che il passaggio da 30 di reclusione a 16 è stato affidato ad un atto di volontà più vicino al pollice retto o verso che ad una ragionevole e penetrante decisione, ci si dovrebbe interrogare sul mitico ‘sistema’”.

La vicenda meno nota va letta tenendo presenti sia le date, a proposito di prescrizione, sia le ulteriori, seguenti, parole del dott. Davigo: “…se definiamo la prova la traccia che un reato lascia, è evidente che il passare del tempo disperde questa traccia. Una volta che le prove sono state acquisite non c’è ragione che decorra la prescrizione”.
In questo secondo caso scrivevo: “Un padre e una madre, lui fuochista in un’azienda che produceva ceramica, lei maestra d’asilo, devono aprire la porta della loro casa a uomini che entrano con la forza: pretendono che i loro figli, quattro, siano svegliati. Dormono: sono bambini, la minore ha tre anni, la maggiore undici. E sono le cinque del mattino. Li portano via. Non li vedranno mai più.
Non siamo in Cile, nei giorni immediatamente successivi al golpe di Pinochet. Né nell’Argentina dei desaparecidos. Né in Cambogia, quando il suo primo ministro Saloth Sar, in arte Pol Pot, fra le altre pregevoli iniziative, ebbe quella di sottrarre i figli ai genitori, per educarli al nuovo stato socialista. No, no. Siamo in Italia, a Bassa Finalese, frazione di Finale Emilia, provincia di Modena. Italia colta, civile e ricca. Ma, purtroppo, anche lì c’è questa magistratura. È il 16 Novembre 1998, e siamo a casa di Delfino Covezzi e Lorena Morselli.
Il Tribunale per i Minorenni, con provvedimento provvisorio aveva disposto il prelievo. Qualche mese prima, i Servizi Sociali avevano ascoltato da due bambini problematici di cui una, di otto anni, formalmente psicolabile, un racconto fantastico. In questo racconto c’erano, alla lettera, “orchi”. Poi c’erano delle “messe” al cimitero, di sera o anche in pieno giorno, dirette da un prete, Don Giorgio Govoni. In queste riunioni si lanciavano “dei bambini” in aria, che poi cadevano e, “forse morivano”; si facevano delle cose nudi, i bambini venivano decapitati e gettati nel fiume Panaro dal prete stesso; i bambini affluivano da alcune famiglie povere del paese, in cambio di “utilità” (anche l’aria è utile); condotti, anzi portati, su un pulmino parrocchiale; un fotografo poi, delle messe, presto qualificate dai pubblici ministeri “riti satanici”, traeva anche un book da rivendere, per i più curiosi. Ah già, dimenticavo: perché, naturalmente, Satana vuole le orge.
I bambini di Delfino e Lorena erano stati sequestrati per “omessa vigilanza”: avrebbero assistito alle orge sataniche. Non verranno mai ascoltati dal magistrato sul fatto nel quale, secondo Maria, la loro cuginetta di otto anni psicolabile, sarebbero stati coinvolti. Dopo quattro mesi, il caso arriva in Parlamento, da qui al ministro della Giustizia, che chiede al Tribunale di uscire, entro sette giorni, dalla condizione “provvisoria” in cui erano precipitati i Covezzi: che non erano nemmeno indagati. L’ultimo giorno dell’ultimatum, dopo un colloquio con la psicologa dei Servizi Sociali, la maggiore dei piccoli Covezzi afferma di esser stata violentata da Delfino, presente la madre, che osservava indifferente. Il giorno stesso, i Covezzi ricevono un avviso di garanzia. Per celebrare la puntualità del ricordo. Il Ministro Diliberto chiude soddisfatto la faccenda della provvisorietà.
Ad un anno dal prelievo, i bambini più grandi cadono preda di allucinazioni: vedono papà e mamma dovunque. I genitori, a cui il particolare viene riferito, perchè loro non possono avere contatti con i loro bimbi, chiedono al Tribunale per i minorenni di sottoporli ad una visita. Il Tribunale nega. A questo punto, la bambina maggiore aggiunge anche di essere stata violentata dal nonno Morselli (padre della madre) e dagli zii, con una frasca di quaranta centimetri, in un boschetto adiacente la scuola, prima di prendere lo scuolabus. Nonno e zii, si accerta, abitano a 85 chilometri da lì, e non potevano essere presenti quando la bambina (che continuava a non essere curata) se li era immaginati.

Già il GIP, durante l’indagine, aveva rilevato che le consulenze tecniche ginecologiche e psicologiche del Pubblico Ministero erano destituite di qualsiasi fondamento medico-biologico. Dei colloqui avuti con i Servizi Sociali, nessuna documentazione: né cartacea (verrà affermato che i verbali, no: gli “appunti”, erano andati “smarriti”) né video. Il fiume, dragato al costo di 280 milioni, non restituirà nessun corpicino, nè integro nè decapitato. La bambina, nel frattempo divenuta “abusata centinaia di volte”, risulterà vergine. Il boschetto del nonno e degli zii (arrestati), “inesistente”. Nonostante tutto questo, il Tribunale condannerà a 12 anni Delfino e Lorena (2002).
La Corte di Appello assolverà loro e gli altri, censurando duramente sia le consulenze del Pubblico Ministero che i “colloqui” con gli psicologi dei Servizi Sociali (2010). Sono passati otto anni e una sentenza della Corte Europea per violazione dei diritti della difesa. Il Pubblico Ministero, imperterrito, impugnerà in Cassazione, che ordina (2011) un nuovo processo in Corte di Appello. Conferma dell’assoluzione (2103). Nuovo ricorso in Cassazione del Pubblico Ministero. Questa volta, oggi (Dicembre 2014, n.d.r.), dopo sedici anni, l’assoluzione è definitiva. Per tutti. Anzi no.
La madre di Maria, la bambina di otto anni psicolabile, e cognata di Lorena, è morta in carcere a 36 anni. Don Govoni, è morto d’infarto, un anno dopo l’apertura dell’inchiesta. Delfino Covezzi, invece, se n’è andato l’anno scorso. Valeria, Enrico, Paolo e Agnese, i bambini prelevati quella mattina, per sette anni non hanno potuto vedere i genitori; convinti di essere stati abbandonati, non li hanno più voluti reincontrare”.
Tornando ai nostri giorni (in realtà, sempre gli stessi), si può osservare che, in un caso, una Procura Generale decise sovranamente di non agire, nonostante un dimezzamento di pena affidato a pochi stilemi: senza tuttavia che nessuna previsione, sul “tempo di prescrizione” o sui “doveri di avocazione”, ne avesse “tagliato le unghie”, o aggravato gli oneri organizzativi, costringendola all’inazione; nell’altro, una Procura della Repubblica ha goduto di tutto il tempo necessario e sufficiente per incorrere in un errore, scovando “tracce che un reato lascia”, e poi coltivare il suo bravo errore per cinque, diversi, consecutivi giudizi, sul capo delle stesse persone, per sedici anni.
Forse un giorno si potranno discernere le ragioni, senz’altro di profondissimo sentimento e raffinatissima congettura, per cui il Presidente del Consiglio dei Ministri della Repubblica Italiana, nonchè Segretario del maggiore partito politico italiano, dott. Matteo Renzi, ha ritenuto di non “mettere la fiducia”, dopo aver constatato che “il capo dei giudici… ha detto anche cose pesanti su di me”, “perchè avrà le sue motivazioni”, e, pertanto, “la fiducia su atti per la giustizia che i giudici dicono dannosi prima di metterla ci penso due o tre volte”.
Intanto, buona meditazione.