I ruoli decisionali e manageriali riservati alle donne sono sempre molto limitati nella civiltà contemporanea, e questa mancanza non passa più inosservata come un tempo. Si potrebbe pensare che la materia non riguardi professioni tradizionalmente più aperte e meno ingessate come quelle legate alla produzione delle idee, ma le cose non stanno esattamente così. Nel mondo delle agenzie di pubblicità la questione è sui tavoli da diversi anni. Se circa la metà dei lavoratori nel campo della pubblicità è composta da donne, è altrettanto vero che solo l’11% riveste un ruolo manageriale come ad esempio quello di Direttrice Creativa. I dati sarebbero ancora più severi, se è vero che una apposita conferenza sul tema si è voluta chiamare “The 3% Conference”, proprio per segnalare un numero ancora più basso di donne che “ce l’hanno fatta”.
Capita allora che una testata importante come Business Insider decida di intervistare Kevin Roberts, Chairman di Saatchi & Saatchi, il guru che ha tra l’altro inventato il Lovemark, per dire la sua sull’argomento. Roberts, abituato a parlare in modo schietto e diretto come da tradizione neozelandese, nega che quello del genere sia un problema. “Quello che avverto io – dice il pubblicitario – è che le persone (uomini o donne che siano) oggi vogliono solo lavorare felicemente, stare bene, in un ambiente che favorisca connettività e creatività. Il resto sono argomenti un po’ datati”.
L’intervista a Kevin Roberts manda su tutte le furie il numero uno della Publicis (compagnia che possiede la Saatchi&Saatchi) Maurice Levy, che in una secca e breve nota non si limita a prendere le distanze dal suo collega (uno dei 4 a sedere con lui nel Directory Board), ma lo licenzia in tronco. Frasi incompatibili con il motto aziendale “Vive La Difference”, che almeno a parole va nella direzione opposta. Considerati i tempi e i modi sembrerebbe più un regolamento di conti interno, magari dovuto ad antiche gelosie o a questioni legati ai conti economici (Roberts ad esempio è colui che ha curato, gestito e fatto crescere il business legato al brand Toyota nel gruppo, valutabile in milioni di euro). Di fatto la reazione così dura lascia intendere che il nervo in questione è davvero molto scoperto.
E resta il fatto che la comunità pubblicitaria mondiale continua da tempo a interrogarsi sul perché alle donne sia concesso sempre poco spazio ai livelli manageriali-creativi. Uno dei luoghi comuni più diffusi è che i talenti femminili siano sempre abbastanza rari. Ma non è di questo avviso Cindy Gallop, che da anni si batte per un superamento della cosiddetta gender diversità, e non solo di quella. L’esperta sostiene ad esempio che se le aziende usassero dei “filtri” specificatamente indirizzati a fare entrare in azienda solo “donne non-bianche” ci sarebbe una vera rivoluzione nel settore e anche tutto il business ne beneficerebbe notevolmente. Ma questo non potrebbe che provocare un filtro di tipo opposto, ugualmente sconsigliabile. Di fatto, sostiene la Gallop, oggi avviene che una donna venga assunta in questo tipo di azienda solo se ha già dimostrato qualcosa, mentre per gli uomini vale la semplice potenzialità a svolgere un particolare compito. Uno dei suoi mantra è “Women challenge the status quo because we are never it”.
Anche in Italia, le direttrici creative nelle agenzie di pubblicità non sono mai state molte. La tesi di Roberts (che gli è costata il posto) è che a un certo punto della loro carriera le donne non vogliano prendersi responsabilità manageriali, ma preferiscano rimanere a sporcarsi le mani, ad esempio con il prodotto creativo. La loro ambizione non sarebbe quindi di tipo “verticale”, ma piuttosto “circolare”, intrinsecamente volta alla ricerca della felicità. Comandare è molto più noioso che creare, sostiene il neozelandese. Una tesi che sta facendo discutere, anche perché nella stessa Saatchi sono molte le figure creative femminili importanti: la stessa worldwide creative officer è una donna, di nome Kate Stanners.
L’errore di Kevin Roberts è stato probabilmente quello di sottovalutare un problema molto sentito nella comunità pubblicitaria internazionale, dove non mancano e non sono mai mancati episodi di sexual harrassment nei confronti di dipendenti donne: anche qui la scelta di Roberts di attaccare la presa di posizione della Gallop contro le frequenti molestie sessuali nel settore, come “chiacchiere di chi cerca di farsi un po’ di pubblicità” non è sembrata molto felice.
Le reazioni in rete non si sono lasciate attendere: c’è chi plaude alla decisone di Levy di sbarazzarsi di chi la pensa in questo modo, e chi invece osserva che se il problema esiste, esiste a monte. E la responsabilità sarebbe proprio di chi ha permesso che si diffondesse. Ovvero il capo di tutta la baracca.