Roma, Milano, Napoli, Torino, Bologna, ordinate per popolazione residente, sono stati presentati dal quasi unanime parterre degli osservatori come cinque “test”, o, nell’insieme, come un unico importante “test politico” per Matteo Renzi: tanto come segretario del Partito Democratico, quanto come Presidente del Consiglio. E che il diretto interessato, secondo usuali stilemi, abbia affermato di ritenere queste elezioni amministrative solo “un passaggio locale”, è una buona ragione per ritenere il contrario: cioè che abbiano valore nazionale. Limitato quanto si vuole, ma nazionale. Lo sanno tutti, e lo sa pure il Presidente Renzi, naturalmente.
Così, più che “test”, si potrebbe meglio scrivere “fronti”, e non per mero gusto terminologico. Non pare eccessiva, infatti, l’immagine dei fronti, specie considerando un possibile esito: la sconfitta in tutte e cinque le città. Ad essere precisi, una, Napoli, è già persa: vi si contendono la vittoria Luigi De Magistris e Gianni Lettieri. Il primo è il Sindaco uscente, di schietta matrice movimentista; perciò connotato da asserita estraneità alle collocazioni politiche preesistenti, e tuttavia, oggi più che mai, dato il crepuscolo politico di Berlusconi, essenzialmente in costante contrasto con il Governo ed il partito di maggioranza relativa; il secondo è il candidato di Centro-Destra.
A Bologna, Virginio Merola, del PD, è andato al ballottaggio con Lucia Borgonzoni, che corre per la Lega e il Centro-Destra. Merola, nel partito, è borderline fra Renzi e i suoi avversari interni; molteplici, stando alle sigle, ma unificati nell’opposizione/ostilità al Segretario. Se vincesse, sarebbe una vittoria nel caso migliore da consolidare. Inutile rilevare che, se vincesse Bergonzoni, la sconfitta sarebbe invece piena. Peraltro pare che i voti del candidato di centro, escluso al primo turno, circa 18000, potrebbero più facilmente trovare la sua via che quella di Merola; ed essendo il ballottaggio piuttosto in bilico, anche a Bologna lo scenario peggiore potrebbe trovare spazio.
A Roma, molto probabilmente vincerà Virginia Raggi, candidata del M5S. Se fosse confermata l’ipotesi, sarà l’equivalente di una disfatta, non di una semplice sconfitta. Perchè Roma è la Capitale. Perchè, prima di candidare Roberto Giachetti, c’era stato Ignazio Marino, il quale certo non era riconducibile all’annunciato nuovo corso del Segretario Renzi; ma è poi stato sfiduciato, nel modo ondivago e ambiguo che ricordiamo, proprio da Renzi; che, pertanto, ha assunto la responsabilità politica della sua successione; al Commissario Paolo Tronca si poteva allora concedere qualche mese in più, almeno per rimuovere le macerie più ingombranti lasciate da Marino, e in parte ricevute da Alemanno: a cominciare dalla gestione delle aziende municipalizzate, così vistosamente problematiche, scioperi “a coincidenza” compresi. Invece, elezioni subito. Con cui giungerebbe alla direzione politico-amministrativa di Roma non una figura giovane, e più o meno “da scoprire”: Virginia Raggi. Ma un Movimento politico di rilievo nazionale che vellica programmaticamente umori sordi, valutazioni spicciative, e che, soprattutto, ha diffusamente manifestato, anche nella sua stessa vicenda interna, prassi e movenze liquidatorie e “direttoriali”: parola ad un passo da “dittatoriali”. Sarebbe per Renzi una medaglia al disonore politico.
Torino è l’unico fronte in cui la vittoria per il Pd sembra a portata di mano. Piero Fassino, Sindaco uscente, è figura di chiarissima identità politica; e Chiara Appendino, del M5S, non sembra in condizione di indurre i torinesi, gente misurata e graduale, a scarti immotivati dal loro passo naturalmente conservatore. Tuttavia, ci sono due corollari: Fassino, proprio perchè è Fassino, esprime una tale stratificazione di significati storici e politici interni al PD, da essere irriconducibile ad una semplice aderenza alla linea dell’attuale Segretario; la sua vittoria, pertanto, risulterebbe refrattaria ad un univoco merito “renziano”. Chiara Appendino agita bandiere “antisistema”; ma come accaduto, specie a Torino, a molti prima di lei, esprime, per condizione familiare e conseguente vicenda professionale, una complessità che si segnala più per essere sfuggita al “target-Renzi”, che come volto di una proposta barricadera: giovane, 31 anni, laureata in Bocconi, spigliata nella parola e nella pubbliche uscite, solidamente e modernamente “borghese”, dà l’impressione che Renzi a Torino abbia contro un suo piccolo-alter ego. Insomma, nella città ex-Fiat, o vince una sinistra più tradizionale che “rottamatrice”, o vince una giovane di buona formazione che si oppone a chi, come il giovane Presidente del Consiglio, della novità solida e non improvvisata, avrebbe voluto fare sua esclusiva bandiera.
Milano viene per ultima, ma, come dice il noto adagio, non è l’ultima. Qui si sono addensate alcune caratteristiche che, come sempre accade con le cose milanesi, assurgono ad emblema del “Potere reale”.
A Milano, Giuseppe Sala, per il Partito Democratico, ha beneficiato prima della “moratoria”, decisa dalla Procura della Repubblica sulle travagliatissime indagini Expo, e poi di un’archiviazione che, proprio per seguire all’inusuale “moratoria”, non è apparsa del tutto convincente. Specie alla luce del notorio trend giudiziario-meneghino, come registrato negli ultimi vent’anni. Sicchè, è stato un candidato sotto patronage o, forse, tutela giudiziaria.
Sala è perciò tipica espressione dell’attuale condizione politica di Matteo Renzi. E questo, se vincesse proprio il suo candidato.
Però c’è Stefano Parisi, per il Centro-Destra. E anche per Dario Fo, e Antonio Di Pietro, che a Milano, lo si capisce, capitale di Mani Pulite e dei suoi presenti e futuri effetti, mantiene la sua indiscutibile forza evocativa e, probabilmente, ancora qualche non disprezzabile voto.
Quale che sia l’esito del voto milanese, per Renzi sarebbe comunque una sconfitta. Ma il punto è che quest’ultima sconfitta potrebbe trascendere, e di slancio, la pur rilevante statura simbolico-politica della città di Milano. Se vincesse Sala, sarebbe il riconoscimento formale (Renzi ha ringraziato pubblicamente la Procura per la “moratoria”) del cambio di passo dell’Ordine Giudiziario nell’occupazione della Repubblica: non più indagini, più o meno “ad orologeria”, più o meno “interpretative”, magari poi smontate negli anonimi dibattimenti, e i cui effetti, umani e politici, rimangono tuttavia sempre irreversibili; ma un ruolo pressocchè ufficialmente proclamato, e consacrato da un voto popolare, ridotto però a mera ratifica dell’Alto Patronato.
Se vincesse Parisi, perchè, istituzionalmente indebolito Renzi, si potrebbe cominciare a stringere sul serio sul Referendum. Le indagini sulla Galassia Etruria; per la bancarotta del padre, su Tempra Rossa, sui “Cutresi” di Mantova e Del Rio, sono lì che aspettano. Pronte.
Renzi è a un passo dal subire la manovra finale, che molto probabilmente avvierà il suo annullamento politico. Il punto è che col suo tatticismo sulla fondamentale questione dello squilibrio dei Poteri, non ha solo consegnato il suo destino alla titubanza e all’ambiguità; che sarebbe il male minore. Ma ha malamente frainteso il senso dei suoi iniziali successi elettorali: che erano un chiaro mandato ad agire sulla reale causa dell’involuzione politica, sociale, culturale ed economica che sta uccidendo l’Italia da oltre vent’anni: vale a dire, la reazionaria, sterilizzante e parassitaria “supplenza giudiziaria”. Se “non mette mano” su questo nodo, anche l’eventuale vittoria al Referendum di Ottobre non farà che acuire “l’azione di contrasto”.
Sempre che non ci arrivi già come l’ombra di sè stesso.