Il Sindaco di Lodi, Simone Uggetti, del Partito Democratico, è stato sottoposto a carcerazione preventiva (com’è noto, deliberato anacronismo anti politically correct), in quanto accusato di avere “turbato la libertà degli incanti”: che significa avere interferito nello svolgimento di un servizio o fornitura in favore del suo Comune. In particolare, nell’assegnare la gestione di due piscine, avrebbe indebitamente “modellato” il bando di gara sui caratteri di un solo fornitore. Sembra che l’accusato abbia affermato di averlo fatto “per il bene della città”.
L’europarlamentare, nonchè Segretario regionale del PD, Renato Soru, due giorni dopo l’arresto di Uggetti, è stato condannato in primo grado a tre anni di reclusione, per evasione fiscale; si è dimesso dalla carica di Segretario politico regionale.
Entrambi questi episodi non episodici mettono in luce due caratteri propri del “processo penale fuori dalle aule”, qual è diventato quello italiano.
Ma cos’è il “processo penale fuori dalle aule”? Ce lo spiega (rispiega, come vedremo) il Dott. Roberto Scarpinato, Procuratore Generale di Palermo. Qualche settimana fa, ha scritto che il processo penale non consente solo di “pervenire alla condanna di singoli individui”; ma svolge anche “la funzione di un rito di disvelamento collettivo di una verità rimossa perché perturbante”.
Allusioni psicoanalitiche a parte (qui omesse), il punto è che il processo penale sarebbe (è) un accertamento collettivo: ecco il nuovo volto che questo delicatissimo istituto della vita civile ha assunto in Italia. Non riguarda cioè, genericamente gli interessi della comunità, che sarebbe ovvio; ma il “disvelamento collettivo” così diviene il modo stesso in cui si volge il processo. Non si occupa più della responsabilità penale personale, ma di altro. Non riguarda più le aule di giustizia; e nemmeno la Costituzione, la quale solo a quelle si può riferire.
Tuttavia nessuno sa chi, in concreto, operi il “disvelamento collettivo”. E’ un “divelamento” collettivo, ma formalmente anonimo. Inoltre, nello scoprire, c’è già un pregiudizio su cosa dovrà essere scoperto. Qualcosa che si vuole nascondere, “una verità rimossa”. E, prima ancora di scoprirla, si sa già che è una verità.
L’esito valutativo di una simile scoperta non può che essere una condanna. E si badi che queste movenze obbligate del processo penale valgono sempre: si parte dalla “condanna degli individui”, quale scopo del “vecchio” processo penale, per giungere all’accertamento, o “disvelamento collettivo” che, servendo a scoprire una “verità” voluta nascondere, o voluta “rimuovere”, non può che implicare un’altra condanna. Premesse, conseguenze. Liscio come l’olio.
Se l’accertamento collettivo rimane anonimo, non è detto però che ad esso non si possa offrire una sponda, un orientamento.
Chi può orientare l’accertamento collettivo che, ricordiamolo, muove pur sempre da un processo penale, sia pure “modificato”? Escluse le aule, sono esclusi i giudici; c’è però il processo penale “individuale”, come punto di partenza: ma da superare. In un processo penale ci sono due categorie di magistrati; se non si ci sono quelli che giudicano, perchè l’accertamento fuori dalle aule non li contempla, ci sono gli altri, quelli che accusano. Ci sono i Pubblici Ministeri.
Non è una novità, nemmeno questa del dott. Scarpinato, se guardiamo meglio.
Il 17 Novembre 1993, a La Repubblica, il dott. Francesco Saverio Borrelli, Procuratore della Repubblica di Milano e capo del Pool Mani Pulite, comunicava: “Vorrei dire che, in questo specifico universo d’investigazione che va sotto il nome di ‘Mani Pulite’, forse le conseguenze politiche possono essere tratte prima ancora di attendere la verifica dibattimentale… il grande processo pubblico è già avvenuto”. Prima di attendere la verifica dibattimentale, o “fuori dalle aule”. Il grande processo pubblico, o “disvelamento collettivo”. Le matrici; le filiazioni.
Aggiungete le note parole del dott. Per Camillo Davigo, anch’egli ex Mani Pulite: “non ci sono presunti innocenti, ma solo mascalzoni non ancora scoperti”. E vedrete anche che il “non ancora scoperti” è la stessa “verità” che, secondo il dott. Scarpinato, pur essendo già nota come tale, va collettivamente disvelata. Va proclamata.

L’obiettivo reale più volte dichiarato del processo fuori dalle aule, orientato dal Pubblico Ministero, è la classe politica, tutt’intera. In compendio, per l’Ordine Giudiziario nella sua stragrande maggioranza, valga ancora il Presidente Davigo, con il suo riferimento ai “politici che continuano a rubare”, senza ulteriori precisazioni. D’altra parte, le precisazioni non servono se, come visto, il processo penale, in Italia, non deve più consentire solo di “pervenire alla condanna di singoli individui”.
Ora, di questo nuovo “processo penale fuori delle aule”, in cui la responsabilità personale funge da mero presupposto: o del “disvelamento collettivo” di Scarpinato, o del “grande processo pubblico” di Borrelli, le vicende Uggetti e Soru, come prima accennavo, presentano i due caratteri fondamentali: il “tempo” del processo extragiudiziario, e la “condanna necessaria”.
Sulla “condanna necessaria”, valga quanto fin qui osservato.
Ora due parole sul “tempo” del processo extragiudiziario. Dal primo carattere deriva il secondo. Se l’accertamento che conta, il “disvelamento collettivo” di Scarpinato, è il “grande processo pubblico” di Borrelli, il suo tempo è quello dell’agorà, della piazza, oggi digitale e mediatica. Medium, che sta in mezzo fra il fatto e la sua comunicazione. Banditore.
Il “tempo” del processo penale fuori dalle aule, in Italia, è diventato il tempo del bando pubblico. Il quale presenta una qualità preziosa. Si può calcolare al minuto, valutando, in anticipo, quali ne saranno gli effetti. Il quadro generale, politico, sociale, culturale, su cui si incide è di comune conoscenza. Il presupposto, cioè l’atto del “vecchio” processo penale, quello inteso ad accertare responsabilità individuali, ma ormai proteso al “disvelamento collettivo” o “processo pubblico”, invece (ovviamente), dipende solo da chi governa il processo “tecnico”.
Non sorprende che, assunto questo improprio, ma efficacissimo, ruolo di “Orientatore” del “disvelamento collettivo”, con i suoi “tempi” esterni alle aule e i suoi esiti necessari, “la Magistratura Che Accusa”, a questo punto, è tale da poter andare persino oltre il ruolo formale del Pubblico Ministero, pur fondamentale per l’innesco del “disvelamento collettivo” o “processo pubblico”; ed è tale anche a prescindere da questo o quel procedimento penale in corso. La “Magistratura Che Accusa” vive, assolve alla sua funzione di “Orientatore” se e in quanto accusa; se e in quanto combatte. Tutta intera.
In queste stesse ore, il Responsabile per la Giustizia del Partito Democratico, David Ermini, ha dichiarato: “Avrei terrore a farmi giudicare da uno così”. Giudicare; non accusare. Si riferiva al dott. Piergiorgio Morosini, membro del CSM, eletto nelle liste di Area, il “correntone” in cui sono confluite, ma solo elettoralmente, MD (Magistratura Democratica) e Movimento per la giustizia (un’altra corrente). Motiva le sue parole considerando che quel magistrato ha annunciato, in costanza di mandato al CSM, attiva militanza in favore dei Comitati per il No, al prossimo Referendum costituzionale di Ottobre. Secondo il dott. Morosini, la riforma in senso monocamerale, intensamente voluta dal Presidente del Consiglio Renzi, rischierebbe di trasformare l’Italia in una “democrazia autoritaria”.
Così, anche la magistratura, nelle sue componenti associative, viene chiamata a fronteggiare il pericolo. Le critiche di Ermini sembrano riferirsi al fatto che, in effetti, il Consiglio Superiore della Magistratura, Organo costituzionale, giudicando i giudici, che giudicano tutti, istituzionalmente è, o dovrebbe essere, la Sede della terzietà al suo massimo grado di sublimazione.
Come si vede, l’ostilità istituzionale è portata ben oltre il formale ruolo di PM; e prescindendo dall’ “investitura” di un singolo processo penale.
Il dott. Morosini ha inoltre dichiarato al Foglio: “Condivido ogni parola di Davigo,” solo aggiungendo, e in questo distinguendosi, a suo dire, dal suo Presidente, che “c’è una questione morale anche dentro la magistratura”. In realtà, sia pure in termini più sfumati, Davigo (peraltro, intervenuto il giorno dopo a difesa del Collega, affermando che “i magistrati sono liberi di parlare”), aveva espresso la stessa, generica, idea: “…anche i magistrati sbagliano”.
Più o meno simultaneamente, un membro non togato del CSM, Giuseppe Fanfani, ritenendo le misure adottate nei confronti del sindaco di Lodi “ingiustificate e comunque eccessive“, annunciava di voler chiedere l’apertura di un esame della vicenda in seno al Consiglio.
Dunque, abbiamo il seguente quadro: da un lato, un’accusa di autoritarismo rivolta al Governo della Repubblica da un magistrato, membro del CSM; d’altro, uno scopo e un rito “nuovi” del processo penale, che ne permetterebbero un svolgimento fuori dalle aule, e a prescindere dal giudizio e dal giudice; sia secondo un alto magistrato in carica, sia secondo un altro magistrato, famoso, e parimenti alto, oggi in pensione. Ma del cui autorevole pensiero, evidentemente, si continua a far tesoro.
In questo subbuglio censorio, assai incautamente, il dott. Morosini si è abbandonato ad una retrospettiva storica, all’insegna del “quando c’erano Moro e Berlinguer”.
Tuttavia, Aldo Moro, che indubbiamente fu un grande uomo politico, sui rapporti fra magistratura e parlamentari e, in genere, la “politica”, aveva le idee piuttosto chiare.
Il 10 marzo del 1977 si presentò in Parlamento, dove si discuteva di presunte tangenti in seno al c.d. scandalo Lockeed, e della messa in stato d’accusa di due ex Ministri della Difesa, il democristiano Luigi Gui ed il socialdemocratico Mario Tanassi. Disse “…noi vi diciamo che non ci faremo processare nelle piazze…”.
Per una singolare coincidenza, il nome di Tanassi è stato evocato da Davigo, nella nota intervista; quando fu arrestato, dice Davigo, Tanassi parlò di “delitto politico”, ma, prosegue, non capivo perchè. Poi, sarcasticamente, dice di aver capito: era un “delitto politico” perchè andava in galera solo lui. E non tutti.
Moro non andò in galera. Morosini, che lo rimpiange, “condivide ogni parola di Davigo”. Davigo, indirettamente, finisce con l’essere sarcastico verso la difesa anche di Tanassi, fatta da Moro. Idee confuse: ma pretese chiare.
Di fronte a tutto questo, il Presidente del Consiglio Renzi, sprofondando nella mediocrità politica su cui sembra volersi ormai attestare, ha dichiarato che non ci sono “complotti del PM”. Sconfessando, di fatto, tanto Ermini che Fanfani.
Ma il punto, s’intende, non è la più o meno trascurabile disarmonia di partito.
In effetti, non c’è nessun complotto dei Pubblici Ministeri. C’è in Italia da poco più di vent’anni, per dirla con parole che potrebbero integrare il cotè immaginifico del Presidente/Segretario Renzi, una partita di briscola, con briscola a bastoni.
Nella quale il Governo e il Parlamento, cioè l’espressione democratica della sovranità popolare, anche grazie a simile, irresponsabile facilismo, sono il due di coppe.