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March 22, 2016
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Dopo l’attacco a Bruxelles, è ora di scelte coraggiose

Il racconto di chi era in città martedì mattina e qualche considerazione sul momento che stiamo vivendo

Tommaso Della LongabyTommaso Della Longa
attacco a bruxelles

Le strade di Bruxelles presidiate dall'esercito dopo l'attacco di martedì mattina

Time: 4 mins read

Martedì 22 marzo 2016 è una di quelle giornate che rimarrà tristemente nella storia. Ci siamo svegliati con le notizie che arrivavano da Bruxelles sconvolta da bombe e attentatori suicida. A essere colpiti sono l’aeroporto internazionale e la metropolitana alle fermate contigue alle Istituzioni europee: un attacco al Belgio e al cuore dell’Unione europea, in seguito rivendicato da ISIS.

Mentre scriviamo, il bilancio delle vittime racconta di  34 morti e più di 130 feriti.  Le immagini ci fanno rabbrividire: gente che scappa nelle strade, bambini feriti, sale dell’aeroporto piene di fumo e terrore. “Il vuoto per le strade, le sirene, il silenzio: era veramente angosciante – spiega Stefano proprietario del bar La vita è bella, a Bruxelles – Ho tenuto aperto anche per dare una mano a quei tanti turisti che non sapevano dove andare”.

attacco a bruxelles
Un’immagine scattata martedì dall’interno del bar La vita è bella, a Bruxelles

Maria Paola De Angelis, funzionaria del Parlamento europeo, racconta: “Al momento dell’esplosione in metropolitana ero appena arrivata in ufficio. La città sembrava impazzita. Con gli altri colleghi abbiamo cercato di contattare tutti quelli che ancora non erano arrivati. Uno dei miei amici era uscito dalla metro esattamente sei minuti prima dell’esplosione”. E il fato è presente anche nel racconto di Elisa Reschini, funzionaria parlamentare: “Questa mattina il mio fidanzato sarebbe dovuto partire per Roma alle 9.15 e quindi essere in aeroporto proprio nel momento dell’attentato. Io lo spingevo a partire per andare a una riunione: ripensarci ora è a dir poco scioccante”.

Sono tante le domande che restano aperte, mentre si indaga sulla dinamica degli attacchi, ma il messaggio che gli attentatori hanno voluto mandare sembra chiaro: “Con gli attentati odierni –  continua Elisa Reschini – hanno voluto colpire la nostra vita quotidiana lavorativa e il cuore dei valori occidentali europei. Questo radicalismo, però, è stato causato anche dall’esclusione di queste persone dalla nostra società”.

E’ molto difficile scrivere nelle prime ore dopo l’attentato. Ci deve essere spazio prima di tutto per il rispetto delle persone uccise e delle loro famiglie. Ma qualcosa bisogna dire, a voce alta. Subito dopo quest’ultimo atto di terrorismo, sulla rete come in televisione, in tanti hanno ricominciato a parlare di una nuova guerra, del nemico da sconfiggere, dell’equazione migranti uguale terroristi, dell’integrazione impossibile con l’Islam. Davanti a tutto questo non si può rimanere in silenzio: l’ultima volta che il mondo ha giustificato idee come la guerra preventiva e lo scontro di civiltà, abbiamo visto com’è andata a finire. Allora, forse prima di evocare nuovi scenari apocalittici bisogna ripartire da un cambio culturale, sociale, strategico e militare. Se partiamo solo dalla fine, la risposta armata, daremo solamente ragione ai terroristi, creando nuovo risentimento e frustrazione che faranno ingrossare le fila dell’ISIS e di al-Qaeda.

Lo avevamo già scritto dopo l’attacco a Charlie Hebdo a Parigi: c’è bisogno di una virata totale dal punto di vista culturale. Il terrorismo, i morti, gli attentati sono in tutto il mondo e ci dovrebbero unire sotto un’unica bandiera, altro che scontro di civiltà. Nella stragrande maggioranza dei casi, tra l’altro, le vittime del terrorismo sono musulmane. Qui non si tratta di fomentare un’altra guerra contro i paesi musulmani, ma di far capire a tutti che c’è bisogno di unità e di pari trattamento con sdegno, lutto e rabbia comuni sia che gli attentati siano a Bruxelles sia che siano a Damasco o a Bamako.

Poi c’è bisogno di un intervento sociale: se i figli dell’Europa, in alcuni ghetti, decidono di diventare combattenti dell’ISIS significa che c’è qualcosa che non va e che un certo modello di integrazione deve essere cambiato necessariamente. Dove non ci sono pari opportunità, sviluppo, regole e presenza dello Stato, la criminalità e la violenza prendono il sopravvento. A Molenbeek come nei quartieri di Campania e Sicilia dove i residenti difendono mafiosi e camorristi dagli arresti delle forze dell’ordine.

Non è il momento di chiudersi e di alzare i muri. È il momento di scelte coraggiose e rivoluzionarie. È il momento di costruire ponti e opportunità. Ma è anche il momento in cui l’Occidente, intenso come USA e alleati NATO, deve capire di aver perso, di non poter continuare a destabilizzare stati in nome dei principi democratici e delle scorte energetiche e di dover ripensare completamente il nostro approccio a tutto quello che è diverso da noi. Sembra che l’Europa si sia dimenticata dei tantissimi esempi di convivenza che ha avuto nella sua storia come delle scelte scellerate che hanno portato alle guerre mondiali. Eppure basterebbe andare in Sicilia o in Andalusia per capire che nel nostro DNA abbiamo l’apertura verso l’esterno, la comprensione e la convivenza pacifica.

La situazione è molto difficile, bisogna reagire. Ma, per favore, non dite che c’è bisogno di una nuova guerra e di nuove bombe o di bloccare i flussi migratori. Qui c’è bisogno di bloccare i finanziamenti ai terroristi, di aiutare le formazioni che sul terreno li combattono (che quasi sempre non sono state aiutate dall’Occidente), di sanzionare e isolare i governi che aiutano e hanno aiutato il terrorismo (che, caso strano, quasi sempre sono alleati fedeli dell’Occidente), di lavorare sul dialogo e sulla comprensione reciproca con quella grande maggioranza del mondo musulmano che odia il terrorismo e che lo combatte quotidianamente (e che tra l’altro lo condanna apertamente, da Teheran a Il Cairo tanto per parlare di massime guide religiose sia sciite che sunnite).

La situazione si sta facendo grave, gravissima. Il mondo sembra sull’orlo di una nuova guerra estesa e asimmetrica. Noi possiamo ancora fare qualcosa, informando e facendo domande e soprattutto mettendo in fila una serie di avvenimenti che accadono in giro per il mondo. Perché i servizi segreti europei non fermavano i combattenti stranieri che andavano in Siria? Perché è stato permesso alla Turchia, all’Arabia Saudita, al Qatar di foraggiare e sostenere in ogni modo i gruppi terroristici?  Perché in Francia è stato apposto il segreto di stato sulle indagini sugli attentati a Charlie Hebdo?

Ora c’è bisogno di unità e non di divisioni. Ma soprattutto c’è bisogno di scelte rivoluzionarie. A preoccuparmi, però, è la mancanza di leader rivoluzionari all’orizzonte.

Post scriptum: non per fare il solito dietrologo, però ho un’altra domanda: come mai nell’era degli smartphone e dei social media abbiamo pochissime foto degli attentati di Parigi e tantissime di Bruxelles?

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Tommaso Della Longa

Tommaso Della Longa

Giornalista, giramondo, romano e romanista, classe 1980. Scrittura e viaggio sono la mia vita. Per anni freelance in zone di crisi, poi nell’umanitario, prima nella Croce Rossa Italiana e poi in quella Internazionale. Ho tanti posti preferiti, tra cui Gerusalemme, Beirut, il Turkana e Belfast. Porto nel cuore le storie delle persone incontrate, dal Congo alla Siria, fino alle strade italiane. Il sorriso dei migranti, in Serbia come in Iraq o a Lampedusa, mi spinge ad andare avanti cercando di capire, imparare e raccontare sempre la verità, anche se scomoda. Ho denunciato gli abusi “in divisa”, come ho indagato sulle pagine buie degli anni di piombo. Dopo un anno a Beirut, sono tornato a Roma, perché ancora credo si possa costruire qualcosa in Italia. Sono un irriducibile idealista, lo so.

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