Dalle cronache di questi giorni.
Libertà di parola. Si è fatta ampia riprovazione dell’irruzione falso-novecento messa in atto nell’Università di Bologna, con cui si è notificato al prof. Angelo Panebianco che lui non poteva insegnare “in questo Palazzo, perché è un guerrafondaio”. Onestamente, a risentirne l’audio, la performance, diffusamente presentata come criptoterroristica, ha consegnato una vocina cantilenosa, macilenta. Propria più di un timido e spaurito passante, costretto a salmodiare parole raccattate da qualche parte, che di un nuovo Capanna. Oggi, un’auletta con dieci persone, e nessuna ambiguità di giudizio nel mondo adulto, ieri, assemblea totalitaria la mattina e Giulia Crespi la sera.
Così, stupisce la parola “infamia”, riferita dal Prof. Romano Prodi all’accaduto. Un po’ troppo facilona, per uno con la sua memoria. Dato che di giovanilismo turbolento, diciamo così, insieme al Prof. Clò, poi Ministro di Centro-Sinistra dal Gennaio 1995 al Giungo 1996, al Prof. Baldassarri, poi Vice-Ministro di Centro-Destra dal giugno 2001 al maggio 2006, e a qualche altro loro Collega, forse il Romano nazionale, qualcosa sa. Proprio da lì, infatti, dal milieu universitario di Bologna, scaturì l’ispirazione a scrivere, con un bicchierino e l’aiuto di uno spirito-guida, il nome “Gradoli”, durante il sequestro Moro. Eppure, nonostante quell’indicazione richiamasse più la studentesca Autonomia bolognese che medianiche confidenze, in questi 38 anni nessuna similare aggettivazione è mai salita alle sue labbra; per qualificare, dalla cattedra o da uno dei molteplici pulpiti pure amabilmente frequentati, una meno inverosimile gioventù turbolenta, forse amica di assassini.
Allora, va benissimo denunciare e censurare, per carità. Ristabilite le proporzioni e ripreso contatto con la terra, però.
Parole in libertà. Alla fine, dopo aver raggiunto vette retoriche tali da far scolorire Lincoln e il Proclama di Emancipazione (degli schiavi) a disputa condominiale, sul DDL Cirinnà abbiamo avuto anche l’impennata (o l’inabissamento) sulla fedeltà. Trattata come suocera e nuora di classica animosità avrebbero trattata la ricetta del sugo di pomodoro: facciamo il mio; no, il mio; allora, niente. Eppure, la fedeltà è una parola nobile e imponente. In quanto qualità giuridica del matrimonio, traduce il calco cattolico, con il suo pacifico carattere monogamico. E, in generale, stigmatizza la serietà del patto, che solo così può diventare libero vincolo. E qui le piroette, i deliri, le ripicche, hanno infiocchettato Palazzo Madama con ogni dovizia.
La fedeltà non si può imporre per legge, si è detto. E che c’entra? E’ ovvio che non si può imporre, ma si può onorare, si può presidiare, si può riconoscere nella sua importanza formalmente qualificata. Ritenere il contrario, cioè che la legge debba disinteressarsene, implicherebbe sancire un accordo senza l’intenzione dell’accordo, occuparsi istituzionalmente di una promessa, mentre si ammette che non è una promessa. Pare che la volontà politica di “alleggerire” le Unioni dell’obbligo di fedeltà volesse segnare la differenza dal matrimonio. Se proprio ci tenevano, allora dovevano opporsi su tutta la linea, e non sostenere simili scempiaggini.
Ma, sull’altro fronte, (dicevo di suocera e nuora) non si è fatto di meglio. Infatti, alcuni senatori “unionisti” hanno obiettato che, se non c’è obbligo di fedeltà nelle unioni civili, allora nemmeno nel matrimonio. E abbiamo avuto anche sfoggio di bella dottrina. Visto che i figli naturali sono ormai in tutto equiparati ai figli legittimi (L 219/2012), qualcuno ha suggerito, cade la ragione della fedeltà. Se voleva essere uno scherzo, non è riuscito. Se non lo era, peggio ancora.
L’equiparazione ha liberato, per lo meno formalmente, la condizione di figlio naturale dal sua carattere ingiustamente autosanzionatorio. Quale che fosse il giudizio sulla “colpa”, non c’era comunque motivo di prendersela col “figlio della colpa”. Ma, essa equiparazione, non ha, né avrebbe potuto, implicare giudizi di approvazione o di indifferenza rispetto alla violazione dell’obbligo di fedeltà. Sia perché non necessariamente l’infedeltà mette capo ad una filiazione. Sia perché, quando pure accade, proprio la recente scelta legislativa di tutelare il soggetto debole, neonato, semmai indica che non si è inteso, per ciò solo, proteggere, nella sua “scelta infedele”, il soggetto forte, adulto.
Parole libere. Si è piuttosto ironizzato sul “petaloso” del bambino ferrarese. Forse è dispiaciuto l’entusiasmo un po’ deamicisiano della Signora Maestra (anche se nemmeno De Amicis andrebbe trattato come un imbecille); forse, in una contrapposizione libresca (ma dal lato di chi la pone), le questioni linguistiche non hanno il brio della Silicon Valley. Non è chiaro. Però sembra che la storiella sia più dispiaciuta che piaciuta. Ora, questi giudizi un po’ gin&tonic mi sono parsi un po’ fragili e felice, viceversa, mi è parsa la cortese risposta inviata dall’Accademia della Crusca al bambino. Per questo: “…chiunque stima che nel punto medesimo che si pubblica il vocabolario…quella pubblicazione per sola e propria sua virtù, chiuda e stoppi in perpetuo le fonti della favella; costui non sa che diamine si sia né vocabolario né lingua né altra cosa del mondo”.
Ecco, secondo Leopardi, per stare nel mondo, figuriamoci per governarlo, bisogna conoscere le parole, ancor meglio se si ha la capacità di crearne di nuove.
Parole libere, parole in libertà, libertà di parola. Trova le differenze.