Rossini Perduto non è solo una nuova opera: è una resurrezione immaginaria. Con libretto di Luigi Ballerini e musica del compositore David Winkler, debutterà in prima mondiale il 22 maggio 2025 alle ore 19:30 presso il St. Jean’s Theatre. Lo spettacolo è prodotto da Casa Italiana Zerilli-Marimò (NYU), con il sostegno del New York State Council on the Arts. La direzione musicale è affidata a Enrico Fagone, la regia a Stefanos Koroneos, e vede coinvolta la Long Island Concert Orchestra. Il cast, giovane e internazionale, si esibirà con sovratitoli in inglese; l’ingresso è gratuito per i membri della Casa Italiana.
Rossini Perduto mette in scena un’idea provocatoria: cosa accade quando il genio si sottrae? Ne abbiamo parlato con Ballerini.
Il cuore dell’opera è un’opera mai scritta. Perché questa idea?
Perché ci affascina proprio ciò che non è accaduto. Rossini Perduto nasce da un’occasione mancata: la cena tra Rossini e Dumas nel 1840, quando lo scrittore gli propose un’opera gotica. Rossini si entusiasmò, improvvisò persino un’ouverture al pianoforte… e poi nulla. Nessuna musica, nessun libretto. Solo nove anni dopo Dumas ne scrisse il racconto sul Constitutionnel. Nel secondo atto dell’opera, quella cena viene ricostruita: è il momento in cui Rossini, anche se solo per un attimo, sembra ritrovare il fuoco creativo. Ma tutto resta sospeso. È da quel vuoto che nasce questa opera. Non è un omaggio, non è una ricostruzione filologica: è un gesto creativo che immagina l’opera che Rossini e Dumas non hanno mai realizzato. Perché un’idea incompiuta non è per forza finita: può rinascere, se qualcuno decide di ascoltarla.
Il primo atto è un talk show condotto da Minosse, con ospiti come Beethoven, Wagner, Colbran… Una provocazione?
Abbiamo scelto la forma del talk show proprio per mettere in scena una discussione pubblica sul “caso Rossini”, come se fosse una questione ancora irrisolta. Minosse, il giudice infernale della Divina Commedia, è il conduttore ideale: giudica, ascolta, guida senza imporre. Attorno a lui siedono personaggi che hanno conosciuto Rossini o che ne incarnano diversi sguardi: Beethoven, severo e impaziente; Wagner, sorprendentemente ammirato; Stendhal, l’intellettuale disincantato; e poi Colbran e Pelissier, le due donne della sua vita, con una voce più affettiva e intima. Questo dispositivo ci permette di far emergere non una verità, ma molteplici letture del suo silenzio creativo.
Rossini smette di scrivere opere a 36 anni. L’opera cerca di spiegarne le ragioni?
Sì, ma senza imporre una sola verità. Rossini Perduto ruota proprio attorno al mistero del suo silenzio creativo. Il primo atto mette a confronto diverse ipotesi: c’è chi parla di esaurimento, chi di fuga dalla fama, chi di una scelta radicale di libertà. Rossini non abbandona la musica: continua a comporre per sé, lontano dalla scena pubblica. Come osserva Olympe Pélissier, è un uomo che ha costruito da sé la propria “prigione”, preferendola all’evasione. Alcuni lo immaginano persino intimorito dalla propria genialità. In ogni caso, il silenzio diventa un gesto di sottrazione, forse l’unico possibile per rimanere integro.

Che immagine ne restituisce l’opera?
Un uomo pienamente consapevole di sé. Ironico, disincantato, ma lucido. Sa di essere un gigante, ma sceglie il margine. Non cede al culto del successo, preferisce i piaceri quotidiani – la cucina, la conversazione – al trionfo teatrale. Non è un eremita, ma un artista che dice “no” al dover essere sempre all’altezza. La sua inattività è una forma di resistenza: misurata, coerente, profondamente umana.
Nel terzo atto, due amici giurano eterno amore. È anche una riflessione sull’identità?
Quella tra Beppo e Gaetano è più di un’amicizia: è un legame che attraversa la morte e che sfuma in un amore totale, non facilmente classificabile. Il loro giuramento è anche una riflessione sull’identità: emotiva, affettiva, persino psichica. L’opera suggerisce che ogni individuo contiene elementi maschili e femminili, e che l’identità – come il desiderio – è fluida, mai fissa. Questo amore oltre la morte diventa così anche un modo per parlare di relazioni che non rientrano in definizioni rigide, ma restano vere proprio nella loro ambivalenza.
C’è anche una riflessione sullo stato del teatro musicale oggi. E’ così? E come affrontate il rapporto con il pubblico contemporaneo?
Sì, c’è una riflessione metateatrale molto forte. Oggi l’opera è vista da molti come un genere chiuso, elitario, polveroso. Ma non lo è affatto. L’opera può ancora parlare, se si trova il linguaggio giusto. Rossini Perduto non è un’opera “classica” nel senso tradizionale: c’è meno Aria e più tessuto musicale continuo; c’è un impianto scenico che mescola parole, canto, teatro e ironia; c’è una struttura tripartita che permette una narrazione aperta, dialogica. Inoltre, parliamo di temi attuali: la rinuncia come scelta consapevole, l’identità che si frammenta, il genio che fugge dal proprio ruolo, la crisi dell’iper-produttività. Questo non può non parlare al pubblico di oggi. E poi c’è un elemento civile: la musica è vista come strumento di resistenza contro la robotizzazione, la superficialità, l’omologazione. È una musica che ancora ci fa sentire vivi.
I giovani e l’opera: davvero un binomio impossibile?
Il teatro si fa per chi ha voglia di ascoltare, e anche i giovani possono rispondere, se vengono messi nelle condizioni di capire. Il problema è culturale, educativo: nessuno insegna più ad ascoltare davvero. Per questo Rossini Perduto è anche un atto pedagogico nel senso più alto: non spiega, ma apre porte. E se anche un solo giovane si sentirà toccato, la sfida sarà vinta.