È stato uno dei primi costruttori di grattacieli, l’uomo che ha disegnato lo skyline di Manhattan. L’eredità di Canio Paternò, emigrante lucano a fine ‘800 diventato Charles Vincent Paterno oltreoceano, è nella ricerca di Carla Paterno Cappiello Golden sulle tracce del bisnonno: un patrimonio sentimentale di mattoni, cemento armato e giardini. Sul sito web Marabella.family, la pronipote ha censito i palazzi realizzati dagli ancestor: luogo, nome, numero di piani. “Ne ho identificati 164, di cui solo 14 risultano demoliti”, spiega. Fate un giro in certe zone. Potrete riconoscerli dagli stemmi sulle facciate che portano incisa una P come Paterno o la cifra PB di Paterno Brothers: seguirne la pista è una caccia al tesoro.
Segnate i puntini sulla mappa, nel percorso fra sogno americano e memorie dell’emigrazione. Aqua vista al 460 di Riverside Drive. Prince Humbert al 520 di Cathedral Parkway tra Broadway Boulevard e Amsterdam Avenue. Van Horne al 300 West End Avenue tra 74th e 75th Street. E il condominio Lucania tra 235 West e 71st Street. New York è fatta di rettangoli e quadrati. Non è un caso se le facciate curve di due palazzoni opposti datati 1910, tra la 116th Street e Riverside Drive, si specchiano in un unico orizzonte. Sono residenze lussuose costruite dai fratelli Paterno: all’epoca la grandiosa porta d’accesso a Morningside Heights. Sul lato Sud c’è il Colosseum di 12 piani, il più piccolo della coppia. Era arredato con molti comfort: sale da pranzo in mogano, casseforti a muro e una lounge al pianoterra per gli autisti. Dall’altra parte della strada, in Claremont Avenue, c’è The Paterno, 14 piani cilindrici sormontati da un tetto mansardato. È stato la location dei film Nemici, una storia d’amore di Paul Mazursky, e Come d’incanto prodotto dalla Disney. Ancora adesso fanno bella figura lì dove si trovano.
Altro esempio concettuale di edilizia abitativa a prezzi accessibili è il complesso di appartamenti Hudson View Gardens. Si trova fra Pinehurst Avenue e Cabrini Boulevard — all’epoca Northern Boulevard, oggi intitolato alla santa degli emigranti. Realizzato nel biennio 1923-24, in un’epoca in cui solo i ricchi (o per paradosso i poveri) potevano permettersi di vivere a Manhattan, rappresentò la soluzione alla fuga della classe media verso i sobborghi. I dettagli facevano la differenza: fornelli a gas, assi da stiro, pavimenti in linoleum e parquet, lavastoviglie, cucine attrezzate, impianti per smaltire i rifiuti. Il progetto dell’architetto George F. Pelham è tuttora conosciuto come la casa dai giardini splendidamente curati, con un parco giochi per bambini. Non esiste più invece, ed è un peccato, l’Hotel Marguery al 270 di Park Avenue, uno dei maggiori complessi edilizi a Midtown: costruito nel 1917 a Terminal City, nuova zona alla moda, costò cinque milioni di dollari. Ci abitarono Nikola Tesla in affitto e Harry Frazee, il proprietario dei Boston Red Sox che vendette Babe Ruth agli Yankees. Fu tirato giù nel 1957 per far posto all’Union Carbide Building.
Ma chi era Canio Paternò, il protagonista di questa saga familiare all’italiana? Un meridionale partito a sette anni da Napoli per la Merica. Piccolo di statura, capace però di mirare in alto. Viene da Castelmezzano, borgo in mezzo a montagne della Basilicata che somigliano alle Dolomiti, e sbarca nel 1885 a Battery Park con la madre Carolina e i fratelli Celestina, Saverio e Giuseppe. Portano l’accento nel cognome. Il gruppo si riunisce nella casa di Little Italy al padre Giovanni, muratore che diventa capomastro e poi padrone di una minuscola ditta di costruzioni. Il futuro è nel cemento. Quando nasce Marie, la quinta figlia, il ponte di Brooklyn è a pieno regime. Il sesto, Michael, coincide con l’avvento della Statua della Libertà. Poi arrivano Anthony, Rose, Theresa e Christina. L’allargamento della famiglia è simultaneo all’espansione immobiliare di Manhattan. Tutti si industriano. Saverio e Giuseppe, ora Frank e Joseph, aiutano il padre nei cantieri. Canio, diventato il citizen naturalizzato Charles, non è più il piccirillo che vendeva giornali in strada: studia per diventare dottore e curare i poveri.
Si laurea nel 1899 al Medical College della Cornell University, specializzazione al Bellevue Hospital: pare l’inizio di un percorso, è invece il capolinea. Giovanni, che da questa parte dell’Atlantico chiamano John Paterno, si ammala mentre lavora a un grande edificio sulla West 112th Street. È grave, ha solo 48 anni e chiede di tornare a Castelmezzano dove morirà. Frank l’accompagna nell’ultimo viaggio, Joseph è un diciottenne senza esperienza. Serve qualcuno che prenda la guida della famiglia e dell’impresa e l’appello a Canio è esplicito: “Devi farlo tu, è solo per questa volta”. Sarà per sempre. Si toglie il camice che indosserà unicamente per visitare i suoi operai, le loro mogli e i figli. Fonda con Joseph la Paterno Brothers Construction coinvolgendo i cinque cognati. La ditta inaugura un modello di successo: costruire, affittare, vendere. Frank, rimasto in Basilicata, è il collettore dei paesani che partono per l’America: insegna le basi della lingua, prepara i documenti, li istruisce sull’imbarco e l’arrivo, orchestra l’accoglienza e il lavoro contrattualmente retribuito.
È una macchina agile, dinamica e funzionale che rivoluziona il profilo della Grande Mela. Questi palazzi non sfidano le nuvole come avrebbero fatto più tardi l’Empire State Building o il capolavoro déco della Chrysler, inaugurati nel 1931. Però sono i più alti dell’epoca. Condomini sostenuti da un’idea: lo sviluppo architettonico verticale. Il cuore pulsante dell’urbanizzazione diventa l’Upper West Side, attraente per la borghesia emergente. “Ho dato un tetto a ventottomila persone”, dice Charles con orgoglio. Pensa anche a sé stesso e a Minnie sposata nel 1906: dieci anni più di lui, protestante, divorziata, un figlio. È dura da digerire per i cattolici Paterno, malgrado l’affetto che resterà intatto: i Brothers si separano professionalmente. Charles regala alla moglie un favoloso castello sull’Hudson, tra Riverside Drive e il Northern Boulevard. È un gigante con le torri merlate in pietra e 35 stanze. Interni in marmo bianco, eleganti giardini all’italiana, un pergolato sorretto da duecento colonne, la cantina dove coltiva funghi, le serre e una piscina che filtra l’acqua dal fiume. Il castello vive una trentina d’anni. Intuendo che l’area di Inwood è matura per diventare zona abitativa, Paterno decide di abbatterlo e costruire al suo posto Castle Village, complesso di cinque condomini a dodici piani con seicento appartamenti. È per la buona borghesia. Lo slogan del 1938 recita: “Offriamo la luce, il panorama e il comfort di una residenza da milionari a gente che non ha redditi milionari”. Un cinegiornale documenta la demolizione, due pilastri e il muro di contenimento del Castello Paterno resistono. Sono visibili incastonati nel panorama di oggi.
Charles è ormai un ricchissimo self made man. “Genio costruttivo”, lo definisce il sindaco Fiorello La Guardia. Il re Vittorio Emanuele III lo premia con la medaglia d’oro. È un mecenate: regala ventimila volumi alla biblioteca della Casa Italiana nella Columbia University, diretta da Giuseppe Prezzolini. Se ne va improvvisamente a 68 anni nel 1946, senza aver realizzato la Paterno Tower, più alta della Tour Eiffel, cento piani che avrebbero sovrastato New York. Un sogno con radici antiche: “Sono nato in un paesino di montagna, con i tetti delle case che sembravano toccare il cielo. E mi è rimasta dentro, come un dono di natura, una voglia di infinito”. A ricordarne l’epopea c’è un punto significativo in città, un giardinetto all’incrocio tra Cabrini Boulevard, West 187th e Pinehurst Avenue. Circondato da biancospini, mirtilli rossi e bacche selvatiche con tre panchine di ferro battuto a semicerchio. E’ il Paterno Trivium, l’angolo felice di un artefice visionario