A volte essere espatriati è sopravvalutato. Lasciare il proprio Paese per trasferirsi in un altro, dove lavorare e stabilirsi, non è facile né immediato. Al Consolato Generale su Park Avenue, il Comites ha organizzato un panel di confronto per riflettere su benessere e salute mentale degli italiani residenti a New York con l’aiuto di alcuni psicologi e psichiatri italiani e italoamericani. A moderare la giornalista TV Francesca Di Matteo.
“Si tende a pensare – è intervenuto anche il Console Generale d’Italia a New York Fabrizio Di Michele – che chi vive all’estero sia privilegiato perché arrivare qua significa avere un lavoro e perché, nel nostro caso specifico, tutti vogliono essere a New York. La verità è che, nonostante possa essere stimolante, è anche molto impegnativo, soprattutto in una città come questa dove è molto difficile adattarsi. Sotto diversi aspetti: salute mentale, solitudine e per la nostra identità e cultura”.

Leide Porcu, psicanalista, ha organizzato l’evento per conto del Comites suddividendolo in due momenti. Nel primo, tre speaker – Stefano Vaccara, Elena Perazzini e Anthony Tamburri – hanno raccontato la loro esperienza personale da immigrati e figli di immigrati che hanno dovuto adattarsi a una nuova vita. Nel secondo, psicologi e psichiatri – Patrizia Ricchiardi, Luca Caldironi, Robert Leahy, Danielle Knafo, Claudia Godi – hanno spiegato questo sentimento di sdoppiamento, a volte anche depressione, che molto spesso chi arriva è costretto ad affrontare. “È il tipo di conferenza che avrei voluto avere trent’anni fa quando sono arrivata qui – ha commentato Porcu. – In questo Paese si parla tanto di salute mentale, ma non mi sembra si faccia abbastanza. Si parla sempre dei guadagni di espatriare, ma non si parla mai delle perdite. Quando siamo qui, non siamo mai completamente integrati. Ma quando poi siamo dall’altra parte, ci ritroviamo estranei anche là”.

Per esempio, Vaccara, giornalista, ha raccontato che, solo una volta che sono nati i suoi figli, ha deciso di cominciare il processo per prendere la cittadinanza americana e fare pace con il suo sentirsi sia siciliano che newyorkese.
Attraverso il suo lavoro di scrittrice e regista, Perazzini ha raccontato diverse generazioni di italiani negli Stati Uniti. Nel tempo sono cambiate soprattutto le motivazioni degli espatri e la gestualità, le abitudini, la mentalità si trasforma anche in base al territorio in cui gli italiani si stabilizzano. “Ci sono metropoli come New York e ci sono, invece, cittadine universitarie dove le persone si stabiliscono perché studiano o fanno ricerca. I bisogni di queste due categorie sono diversi. Ma adesso le nuove generazioni sono anche meno legate a un posto e si muovono più facilmente dove c’è lavoro”.
Tamburri, professore e direttore del John D. Calandra Italian American Institute, ha ricordato che parlare di salute mentale è una questione piuttosto recente. Gli italiani del secolo scorso, appena arrivati, non prendevano neanche in considerazione la terapia perché era destinata solo a chi “era troppo emotivo” o “instabile mentalmente”.
Rispondendo ai quesiti sollevati dalle esperienze degli altri tre speaker e del pubblico in sala, gli psichiatri e psicologi, Ricciardi, Caldironi, Leahy e Knafo, hanno fornito dei consigli utili. Innanzitutto, tentare di fare pace con se stessi e con questa duplice realtà che viene a crearsi, smettendo di chiedersi se si è italiani o americani. “Siamo entrambi – ha dichiarato Robert Leahy. – Appuntatevi quello che vi succede e rileggendolo nel tempo vi renderete conto che sono più gli aspetti positivi di quelli negativi. Normalizzate l’esperienza che fate e date credito e valore anche a quella degli altri”. Luca Caldironi ha aggiunto: “Usate l’arte come terapia”.