Per la prima volta in assoluto a New York, Cinecittà ha organizzato e curato a Lincoln Center una retrospettiva su Sophia Loren, dal titolo: “Sophia Loren: La Signora di Napoli”, per celebrare la carriera dell’attrice italiana. Ogni sera, da oggi fino a giovedì 13 giugno, verranno trasmessi alcuni dei suoi film più iconici: La ciociara (1960, per cui ha vinto anche premio Oscar come “Miglior Attrice Protagonista”), Povertà e Nobiltà (1954), Ieri, Oggi e Domani (1963), Matrimonio all’italiana (1964) e Una giornata particolare (1977). Fra i più attesi, Peccato che sia una canaglia (1954), Arabesque (1966) e La Contessa di Hong Kong (1966) (ultimo film di Charlie Chaplin e unico a colori), che verranno trasmessi in anteprima mondiale nella loro nuova versione appena ristrutturati in 4K da Cinecittà.
Il programma è a questo link.

“È un privilegio rappresentare la mia famiglia qui a New York e negli Stati Uniti, che sono casa mia”. Edoardo Ponti, figlio di Loren, è atterrato nella Grande Mela per inaugurare la retrospettiva con l’ultimo lavoro a cui ha partecipato l’attrice. Stasera al Lincoln Center andrà in onda La vita davanti a sé (The Life Ahead) (2020). Per l’occasione, La Voce di New York gli ha fatto qualche domanda.
Il film parla del rapporto fra madre e figlio. Perché scegliere proprio Loren per interpretare Madame Rosa?
“Perché in famiglia ho una delle più grandi attrici del mondo. Sarebbe una follia non scegliere mia madre per questo ruolo, anche perché è stata una madre assolutamente incredibile. Inoltre, la storia del film si ispira a un libro che era piaciuto a entrambi anni fa. Dunque era sempre un progetto che avevamo in mente e nel cuore, a cui eravamo interessati a collaborare, da quando avevamo fatto insieme La voce umana (2014) di Jean Cocteau”.
Che tipo di rapporto c’è stato fra voi due sul set?
“C’è questa sintonia, quasi una telepatia, tra di noi dove il linguaggio che utilizziamo per lavorare insieme è fatto non solo di parole, anche di gesti, di sguardi, di sense of humor. I momenti che creiamo ne La vita davanti a sé sono molto intensi, sentiti, travagliati. Invece, attorno al set c’era proprio un’atmosfera leggera. C’è sempre questo equilibrio al limite dell’ironia che ci dà la possibilità di andare veramente in fondo alle cose quando iniziamo a girare. Poi c’è tanta fiducia in entrambe le direzioni ed è molto importante nel rapporto fra un regista e un attore perché da la possibilità al secondo di rischiare, di avere coraggio”.

Che ruolo ha, invece, la leonessa, se Sophia Loren è la madre?
“Sono domande che uno deve chiedere a se stesso. Io ho già la mia versione. Le nostre sue idee sono entrambe valide”.
Qual è la sua scena più difficile? E la sua preferita?
“La più difficile da girare è quando mia madre comincia ad avere le prime allucinazioni: pensa che i tedeschi la stiano venendo a prendere e si rifugia in camera sua. Io avevo veramente paura di quella scena. Ci sono due parti: quella fuori, dove Momo tenta di entrare e non riesce, e quella dove poi apre la porta. Avevo talmente paura di entrare in quella stanza che avevo girato la scena sempre da fuori senza mai affacciarmi, pur avendo fatto tutte le prove, sapendo quello che sarebbe successo. A un certo punto, l’operatore alla macchina mi guarda e mi dice: Al prossimo Cisco, apriamo la porta. E questo concetto è diventato poi un mantra”.
E quando ha finalmente aperto la porta cosa ha provato?
“Sollievo. Anche perché questo tipo di scene non sono nel repertorio di mia madre. Dunque creare un colore nuovo per lei era una cosa che mi impressionava e volevo essere sicuro che il tono fosse giusto perché è tutto. Ero così fiero di lei e anche di Abril Zamora che ha aiutato moltissimo in quella scena”.
Ha mai avuto paura?
“Tutti i giorni. Se uno ha paura significa che ama quello che fa, che ce la mette tutta. Uno deve sempre avere quella fragilità precaria per poter creare qualcosa che tocca. La paura è un elemento fondamentale nella produzione”.
Soprattutto com’è stato vedere Sophia Loren così credibile in certe dinamiche della demenza senile?
“Quando uno gira queste scene, l’emozione c’è ma non paralizza perché in ogni momento io potevo dire staff di fermarsi, avevo sempre il controllo di quello che succedeva di fronte alla macchina da presa. L’effetto di queste scene è arrivato in fase di montaggio.”
Quando il film è stato lanciato, eravamo in un momento particolare che purtroppo non è stato proiettato al cinema, ma solo sulla piattaforma.
“Netflix ha amato così tanto il film da volerlo lanciare anche al cinema. Poi, non si è potuto”.
Come ha vissuto il successo che ha seguito la pubblicazione? Se lo aspettava?
“La fiducia e il fatto che Netflix ha creduto così tanto nel film gli hanno dato visibilità, hanno fatto la differenza. Abbiamo avuto un’opportunità: siccome le persone erano a casa, si sono connesse, lo hanno guardato. Non credo che se fosse stato proiettato solo al cinema avrebbe ricevuto 100 milioni di visualizzazioni. Ed è anche un po’ questa la magia che facciamo: regaliamo una storia a noi stessi come storyteller, ma soprattutto agli altri come pubblico.”
Che rapporto ha avuto con Io sì (Seen), la colonna sonora del film che ha ricevuto anche un Golden Globe e una candidatura agli Oscar?
“La musica è sempre un elemento molto importante nel mio lavoro. Siccome tutto il film è raccontato dal punto di vista di Momo, sapevo che la canzone finale diventasse la voce di Madame Rosa che sarebbe rimasta per sempre nel cuore del bambino. Dunque la scelta di una voce femminile era decisiva e Laura Pausini era la miglior candidata perché è una delle più grandi cantanti italiane e internazionali. Anche per come è fatta: è una persona precisa, che collabora e arriva fino in fondo, con cui si lavora molto bene. Quindi la decisione era quasi scontata. La compositrice Diane Warren ha letto la sceneggiatura senza che io lo sapessi e un giorno mi ha chiamato dicendomi che le sarebbe piaciuto scrivere la colonna sonora per noi – un onore enorme. Ho messo in contatto Warren con Pausini e abbiamo pensato alla tematica. Poi la prima versione era in inglese e Laura l’ha trasposto all’italiano.”