L’odore pungente di olio e solventi è un impalpabile filo conduttore del mio viaggio in una manciata di metri quadri, alla scoperta di risvolti artistici poco esplorati. Sono in un luogo sospeso tra passato e presente. Niente lusso, nessun fronzolo, qui maneggiare arte è concretezza.
Mi accompagna Giorgio Orlandi. Di mestiere restaura quadri e opere d’arte. Ne sa. C’è un Andy Wharol appeso alla parete, più in là un Damien Hirst, su un tavolo uno Chagall, ma potrei andare avanti all’infinito, passando anche per Hockney. Sgrano gli occhi quando il mio sguardo cade su un quadro che è inequivocabilmente un Ligabue. E’ lì immobile, su un cavalletto, un paio di faretti a illuminarlo.
“E’ uno di quelli che avrebbe dovuto finire al Metropolitan di New York” spiega il restauratore. Lo aveva annunciato a Ferrara, nel periodo pre-covid, Augusto Agosta Tota, fondatore e presidente del Centro Studi Ligabue di Parma, morto a febbraio, prima che il sogno di portare negli Stati Uniti le opere di “Toni al mat”, così veniva chiamato il genio, si concretizzasse. Sarebbe stata una prima assoluta, era stata annunciata con orgoglio da numerose autorità d’oltreoceano.
L’occasione era ghiotta, abbinata all’uscita del film su Ligabue, interpretato da Elio Germano e diretto da Giorgio Diritti, “Volevo nascondermi”. Ma la pandemia prima, la morte di Tota poi hanno fatto calare il silenzio sull’ambizioso progetto.
E allora cosa ci fa qui questo quadro? “Ne sto restaurando quattro, è la prima volta in assoluto che viene fatta una simile operazione su opere di Ligabue: questi quadri non sono stati mai toccati, la loro verniciatura è di circa 70 anni fa” spiega Giorgio Orlandi.
Fanno parte di una collezione privata bresciana e sono nel Catalogo ragionato dei dipinti. Sono “Il Leopardo” , “La Vedova Nera” , “Il Gatto selvatico sul Nibbio” e, infine, quello che mi trovo davanti, l’Aquila con Volpe. “Il restauro è in vista della mostra che sarà inaugurata a novembre a Fermo, nelle Marche, a cura di Vittorio Sgarbi e Marzio dall’Acqua, grosso conoscitore di Ligabue, mostra imperniata sulle belve” prosegue il restauratore. Il materiale è nobile, non ci troviamo di fronte a una tecnica dozzinale “ma hanno una verniciatura di finitura alterata, ingiallita, che produce disturbo visivo in alcuni punti del quadro. Le vernici – ci fa vedere Orlandi – perdono nel tempo la loro lucentezza e trasparenza, è la funzione che farebbe un vetro. Così vengono rimosse e il quadro viene riprotetto. Anche quando di base il dipinto è sano come questo” dice indicando l’Aquila e la volpe.
Poi la riflessione sui soggetti e sulle tecniche: “Vedi, Ligabue è stato un autodidatta, non dipingeva con regole ma per istinto. Tutto ciò che vediamo è frutto della sua immaginazione. Immagini trasferite su un supporto in tela. Pensa che i grandi felini che ha dipinto sono totalmente immaginari. Ma nel corso degli anni si è industriato artigianalmente. C’è una foto del suo studio con un’enorme tigre. Un peluche. Non possiamo escludere che fosse usato a modello.”
E’ emozionante assistere a una parte del restauro. Con un solvente Giorgio Orlandi fa prima una prova, per vedere se si riesce a togliere la patina di vernice senza intaccare il colore. Se va bene se ne usa uno più concentrato, che toglie quella vernice ormai ingiallita dal tempo. L’opera resterà opaca finché non verrà applicata una nuova vernice a renderla brillante come fosse appena ultimata. E’ un lavoro che richiede conoscenze chimiche, oltre che di storia dell’arte, ed ha equilibri delicatissimi.
Se questi quadri, un giorno, arriveranno a New York ancora non si sa, ma questo era un grande desiderio di Agosta Tota, non è da escludere che qualcuno ci riprovi in futuro.
Serve un’immensa competenza per maneggiare la storia. Che, per certi versi, è anche business. Quadri come questi fanno parte di collezioni private che, nella maggior parte dei casi, rappresentano un investimento a lungo termine. E il committente, dal restauratore, si aspetta il meglio.
In questo laboratorio, dicevo, c’è di tutto. Lo sguardo cade su un manifesto del 1965 di una mostra di Lichtestein, a New York. Poi su un’opera su ceramica della fotografa statunitense Sandy Skoglund. Di quanti artisti si è occupato Giorgio Orlandi? “Faccio prima a dire quelli di cui non mi sono occupato: mai di opere sul mercato cinese o coreano, che segue altre logiche”. Il filo conduttore con l’America però è uno e indissolubile: “Eh si, mi sento collegato agli artisti americani da quando ho conosciuto Andy Warhol. Ero un ragazzo di una ventina d’anni, ancora studente. L’occasione fu The Last Supper, a Milano. Mi autografò la cravatta, ce l’ho ancora. Morì due mesi dopo”. E poi? “Poi Warhol è stato una costante della mia vita. La maggior parte delle opere che transitano da queste parti passano da me per una valutazione sulla qualità e per una verifica di eventuali anomalie”. Dai tempi degli studi Warhol è rimasto sotto mille altre forme. Le copertine dei dischi, ad esempio, quelle realizzate per i Velvet Underground o i Rolling Stones, persino una per Loredana Berté. Erano i tempi della Factory di New York. Alzo lo sguardo e in un angolo, quasi nascosto alla vista, c’è uno Schifano che, secondo Orlandi, “in Italia è l’equivalente di Warhol. Opere geniali, declinate con gusto italiano”.
Dai quadri del Seicento ai grandi artisti contemporanei il passo non è breve, ma molto complicato. “Restaurare opere d’arte realizzate con materiali differenti è una grande scommessa che ho affrontato con determinazione” conclude Orlandi.
Ceramica, polistirolo, gommapiuma, oggi viene usato di tutto nell’arte. Materiali spesso deperibili negli anni, ma che i collezionisti di tutto il mondo vogliono salvaguardare, anche a tutela del patrimonio che rappresentano. Saper mettere le mani sulle idee non è cosa per tutti.