Benevenuti nel fantastico mondo di un caffè viennese di inizio secolo scorso, fra spume di cioccolato, dolci di marzapane, foglie timide di tè, caffè bollente, e tanta panna montata. “Whipped Cream” si intitola il balletto che ha aperto la stagione autunnale dell’American Ballet Theatre al Koch Theater e che ha riportato al centro la fantastica creatività di Alexei Ratmansky, uno dei coreografi contemporanei più importanti, all’ABT dal 2009.
Due atti di gioco e gioia, tratti da un balletto su musica di Richard Strauss intitolato “Schlagobers” andato in scena all’Opera di Stato di Vienna nel 1924. Strauss si era ispirato ai Ballets Russes di Diaghilev per questa allegra parata di personaggi favolistici, ma il lavoro non ebbe successo nell’Austria reduce dalla tragedia della prima guerra mondiale.
Ratmansky lo ha reinventato con coreografie complesse e passi nuovi e l’aiuto delle scene e costumi immaginifici, a volte surreali altre carnevaleschi, di Mark Ryden. Il protagonista, un ragazzo che l’eccesso di canditi manda dritto in ospedale dove lotterà contro un medico e un esercito di infermiere che brandiscono minacciose siringhe, vincendo infine con l’aiuto di champagne, vodka e brandy, è interpretato magnificamente da Jonathan Klein, giovane ballerino franco-inglese dalla tecnica potente e insieme leggera, bellissima linea e spirito comico adatto al ruolo. La sua principessa pralina è Skylar Brandt, tecnica impeccabile, ma il fulcro della serata è Ratmansky, artista più che mai al centro dell’attenzione internazionale.

Ratmansky è russo e ucraino. Nato a Leningrado nel 1968 da padre ucraino ebreo e madre russa, è cresciuto a Kiev, dove vive tuttora la sua famiglia. Ha studiato al Bolshoi a Mosca, dopo il diploma è tornato a Kiev e ballato nella compagnia di stato dove ha incontrato la sua attuale moglie, la ballerina ucraina Tatiana Kilivniuk. Con la fine dell’Unione Sovietica ha iniziato a lavorare in occidente mantenendo i rapporti con i paesi d’origine, è stato direttore del Bolshoi e proprio nel teatro moscovita si trovava il 24 febbraio quando è iniziata l’invasione dell’Ucraina. Insieme al suo team ha immediatamente lasciato il paese.
“Per continuare a vivere devo silenziare la parte russa di me” ha spiegato, aggiungendo che non sarebbe tornato finché Putin fosse rimasto al potere. Poi ha trovato una nuova voce, più esplicitamente politica. Ha contribuito alla formazione di una nuova compagnia di balletto con 60 danzatori profughi ucraini, rifugiati all’Aia. Con loro ha montato la sua versione di “Giselle”, più aderente all’originale, sulla base delle notazioni d’archivio. Lo spettacolo ha debuttato in Olanda per poi esibirsi a Londra in agosto. Sarà al Kennedy Center di Washington dal 1 al 5 febbraio.
La guerra ha trasformato Ratmansky: “la situazione attuale ha portato l’arte a convergere con la politica in modo naturale, una esperienza che non avevo mai fatto prima” ha detto. Già da tempo in un modo implicito, Ratmansky stava portando avanti il suo discorso politico artistico, liberando le coreografie classiche dalle sovrapposizioni sovietiche, andando all’ origine delle notazioni di Petipa negli archivi imperiali e riallestendo così balletti come “La bella addormentata”, “il lago dei cigni”.
Ma il suo atto più manifesto è stata la creazione di una balletto per l’Ucraina, la sua prima coreografia dopo l’invasione: “Wartime elegy” eseguito dai ballerini della compagnia di Seattle, su musica folk e di un compositore ucraino profugo, Valentin Silvestrov: elegiaco, triste e allegro insieme. E alla fine della prima Ratmansky è entrato in scena sventolando la bandiera gialla e blu.