Che relazione ha lo spazio scultoreo con lo spazio corporeo? Quali implicazioni ha? Ma in ogni caso, perché chiederselo? Ma pare inevitabile camminando tra le opere di Charles Ray: Figures Ground in mostra al Metropolitan Museum of Art di New York.
Charles Ray (Chicago 1953) “was trained not to think of sculpture, but to think sculpturally” – è stato formato non a pensare alla scultura, ma a pensare in modo scultoreo – afferma in un’intervista del 2013 con Will Self. Pensare in modo scultoreo non è un concetto immediatamente afferrabile se non si scolla di dosso quell’istinto di comprendere a colpo d’occhio cosa stiamo guardando. Quindi non sempre la scultura e il suo simbolismo è il fine del nostro sguardo. Piuttosto è l’oggetto che presenterà una forma, che si posizionerà in certo spazio, e in un certo modo, che avrà congruenze logiche e no con la realtà che esiste anche perché è in relazione con il nostro spazio, la nostra percezione, la nostra temporalità e il nostro corpo. In altre parole, qualcuno potrebbe definirlo un approccio fenomenologico.
Rosalind Krauss si è occupata alla fine degli anni ’70 proprio di questo passaggio verso la distruzione della narrativa scultorea definendo spazi negativi e pieni, così ridefinendo un percorso che porta necessariamente il lettore, ma soprattutto il fruitore dell’arte a riconsiderare la scultura come distante ed esterna all’osservatore. Piuttosto, infatti, la scultura moderna prevede un grado di interazione con il corpo stesso dell’osservatore.
Malgrado le opere di Ray non siano strettamente concettuali, si inseriscono in un contesto espositivo che prevede una presenza attiva del visitatore. Per iniziare, si ha la percezione che le opere siano isolate in un ampio spazio separato da una specie di grande arco, per cui si è “forzati” ad avvicinarsi, circoscriverle e anche lanciare nuovamente occhiate da punti distanti delle gallerie. Siamo davanti a opere in cui la nostra percezione spaziale e logica viene stimolata. Tra le opere più concettuali, dobbiamo fare i conti con un tavolo di plexiglass in cui alle trasparenze della materia si aggiungono le illusioni della forma e dello spazio assunto dagli oggetti sovrapposti. La distinzione tra le funzioni logiche, la narrativa degli oggetti per così dire, è messa in discussione. Si realizza infatti che la caraffa non è altro che un’estensione tridimensionale del tavolo e non una superficie piana su cui poggia.
Operazioni simili sono effettuate con altri oggetti che perdono perciò la loro funzione e ne assumono un’altra, illogica, non determinata, ma anche non determinante. Quindi di fatto non siamo di fronte ad un tavolo apparecchiato di piatti, bicchieri o quant’altro, ma di un oggetto non funzionale che ci presenta un quesito diverso da quello aspettato, quasi come un ready-made di Duchamp potrebbe fare. Krauss, sebbene parlasse delle sculture minimaliste, definisce l’intervento degli scultori come un “rifiuto di dare all’opera d’arte un centro o un’interiorità illusoria […] loro “rivalutano semplicemente la logica di una particolare fonte di significato piuttosto che negare interamente il significato all’oggetto estetico” (Krauss 262).
Similmente, Charles Ray interrompe il filo logico intrinseco degli oggetti, inserendo un aspetto quasi meditativo per cui l’osservatore viene costretto a pensare allo spazio in sé e al rapporto con la materia. In questo rapporto è incluso il nostro corpo, cioè quello di chi osserva l’opera. Prendiamo ad esempio un’altra delle 19 opere in mostra; 81 x 83 x 85 = 86 x 83 x 85 (1989). Il titolo si riferisce alle misure del parallelepipedo esterne equiparate a quelle interne. Questa discrepanza crea immediatamente una tensione tra spazi in cui sta a noi determinare la contraddizione. Nel guardare all’interno di questa specie di scatola di alluminio, ci si rende conto che l’opera è inserita all’interno del pavimento e il risultato è ben chiaro se prendiamo una dichiarazione dell’artista stesso per cui “una scultura non giace semplicemente nello spazio o occupa spazio; è fatta di spazio”. In questo si relaziona la materia a cui l’artista sembra essere particolarmente sensibile specialmente nelle sue qualità tattili conferite dalla scelta di acciaio, porcellana, alluminio e legno. Ancora più estrema è l’idea di minimizzare la presenza del gesto dell’artista stesso in Rotating circle (1988) in cui Ray posizione un cerchio incassato sulla parete, e posizionato ad un’altezza uguale a quella dell’artista. Il cerchio è appena visibile e un motore lo fa girare veloce abbastanza da non percepirne il movimento, ma invece udirne il rumore. Un auto-ritratto, lo definisce la didascalia, riportando anche una dichiarazione di Ray: “a portal into my mind – placid on the outside but spinning furiously on the inside”.
Ray, irrompe nella tradizione della scultura classica, ma, sebbene le sue figure umane siano riconoscibili, la scelta del materiale, delle proporzioni e di una rinegoziazione con la narrativa della rappresentazione della figura stessa. Molti sono gli esempi nella galleria di cui si potrebbe parlare, ma particolarmente interessanti sono opere come Family romance (1993) in cui Ray fa allusione ad un trattato di Freud del 1909 sui conflitti familiari, ma creando una specie di ironico commento sulla gerarchia patriarcale dove madre padre figlio e figlia, manichini di fibra di vetro dipinti, sono ri-dimensionati secondo una stessa altezza e perdendo così la relazionalità basata sul genere, sesso, e biologia e, complessivamente, sulla “denaturalizzazione” Un’ambiguità questa che sottolinea come suggerito dai curatori della mostra “la riproduzione meccanica che prevarica la procreazione”. Charles Ray, nel riassegnare spazio, materia e narrativa, esorta i visitatori a confrontarsi con questioni non solo di genere, ma anche di identità e razza. Se da una parte l’approccio artistico è metafisico, ossia offre spunti di riflessione su questioni pertinenti alla natura della scultura stessa all’interno di un discorso critico che abbraccia l’evoluzione del concetto di arte e produzione artistica come in Reclining Woman (2018), dall’altra Charles Ray affronta problematiche storicamente scomode. Di questa natura sono ad esempio Huck and Jim (2014), Sarah Williams (2021), o Boy with a Frog (2009). Huck and Jim è una delle sculture più imponenti della collezione.
Immediata è l’attenzione che esige l’opera grazie all’acciaio inossidabile, scintillante, e alle dimensioni. In riferimento al celebre libro di Mark Twain, Le Avventure di Huckleberry Finn, Charles Ray posiziona i due amici uno accanto all’altro; uno in piedi con lo sguardo rivolto all’orizzonte e una mano appoggiata sulla schiena dell’altro, che, piegato, volto verso il basso è assorto ad afferrare un invisibile oggetto dal pavimento. I soggetti sono il giovanissimo Huck, povero ragazzo bianco e Jim, schiavo nero, entrambi in fuga dal Sud. La complessità della storia si posiziona su un “asse asimmetrico”, per parafrasare le parole del curatore della mostra, tra un rapporto di amicizia e fratellanza. Data la decontestualizzazione e decostruzione delle strutture narrative, si sottolinea la tensione tra gli elementi razziali, ma anche omoerotici, amplificata oltretutto dalla nudità dei soggetti. La nudità che, per altro è una delle costanti caratteristiche scelte in molte delle opere dell’artista. Gli stessi elementi, in una tensione ancora più evidente vengono ripresi in Sarah Williams in cui Huck, presentandosi sotto false vesti di una donna, viene posizionato di fronte a Jim, che inginocchiato è intento ad aggiustare l’orlo della gonna di Sarah/Huck. In questo caso l’asse scultoreo è messo in verticale, posizionando i due in un rapporto gerarchico, enfatizzando dunque anche il dislivello se non sociale, definitivamente razziale.
Molto più sottile invece è rappresentata metaforicamente la condizione esplorativa dei due ragazzi, in Boy with a Frog. Opera, da molti non apprezzata una volta installata sulla Punta della Dogana a Venezia, offre molti elementi sculturali singolarmente leggibili, ma nell’insieme pare aver creato molte discussioni. Il giovane ragazzo, nudo, lasciandosi affondare sui fianchi producendo una postura arcuata del busto, è intento, con la testa inclinata, ad osservare una rana (Rana Toro) che tiene sospesa per una zampa. Questo gesto, il fatto che il ragazzo sia nudo, e che fosse stato messo in una città museo come Venezia, pare aver scomodato la sensibilità di molti, distogliendo l’attenzione dell’opera nella sua interezza. Però, considerando il contesto politico culturale in cui ci troviamo, una delle sculture che in qualche modo, distilla l’essenza della sensibilità artistica di Charles Ray, è Archangel (2021). Concepito per essere esposto a Parigi, dopo l’atto terroristico a Charlie Hebdo, Ray ci presenta una versione contemporanea di un arcangelo con un’energia catartica, quasi redentoria, che in bilico su una superficie instabile, sembra giungere appena sospeso.
Il materiale diverge dalla maggior parte delle opere in mostra, avendo utilizzato un blocco unico di legname naturale come il cipresso giapponese (hinoki) che nelle mani esperte di Yuboko Mukoyoshi diventa una morbida malleabile figura salvifica. Ray riesce però a presentarci una serie di intersezioni tradizioni culturali, come la figura del guardiano arcangelo presente nella tradizione sia Giudaico Cristiana così come Islamica, e composizione scultorea che danno all’opera un’aura universale. A prima vista sembra quasi un serfista, a torso nudo, con i capelli raccolti, infradito e pantaloni arrotolati alle caviglie. Però, il suo posizionamento interno alla scultura così come nello spazio espositivo, caricano l’opera, questa in particolare, ma anche tutte le altre, di una nota contemplativa. Se da una parte tocca questioni di identità, genere, razza, dall’altra offre una vasta possibilità di continuare a pensare alla natura dell’arte stessa, alla sua funzione, alle sue modalità espressive all’interno di dinamiche storiche artistiche, massmediatiche, e di cultura contemporanea. Non a caso, malgrado non siano stati eventi coordinati, Charles Ray sarà in mostra per la prima volta a Parigi fino al 22 giugno con una mostra che di chiama appunto; What is Sculpture?