È successo un’altra volta. Un altro newyorkese in attesa della metropolitana è stato spinto sui binari da uno sconosciuto che si è immediatamente dileguato. Al sessantunenne è andata bene. È riuscito miracolosamente a cavarsela solo con qualche graffio e, probabilmente, uno spavento da rimanerci secchi. È stato ricoverato in osservazione al New York-Presbyterian Hospital, dove lo hanno dimesso dopo cure a ferite superficiali.
Ecco i fatti come sono stati riportati dai poliziotti del NYPD: erano le 11:30 di sabato mattina. Guarda caso lo stesso giorno e più o meno la stessa ora di quando Michelle Go, una settimana prima, era stata spinta sotto un convoglio in arrivo a Times Square e aveva perso la vita. Il passeggero, di cui non è ancora stata rivelata l’identità, era in attesa della metropolitana della linea C alla stazione di Fulton Street. Si tratta di un importante snodo, conosciuto anche dagli stranieri perché si trova proprio accanto a Ground Zero. Da qui in due passi si entra nell’Oculos disgnato da Santiago Calatrava, il grande terminal/shopping center che ricorda una fenice bianca pronta a prendere il volo aprendo le ali.

La stazione stessa di Fulton Street attira i turisti grazie a quella cupola di vetro che sembra un modernissimo Patheon. È qui che la mano violenta di uno sconosciuto ha ripetuto in modo praticamente identico lo stesso gesto del senzatetto Simon Martial, che sabato scorso per nessuna ragione aveva fatto perdere l’equilibrio alla quarantenne Go spingendola sotto un treno in arrivo.
“Copycat”, si dice in inglese, spesso facendo riferimento a thriller psicologici nei quali la mente malata di un omicida ripete in modo identico un’azione criminale del passato. È questo quanto è avvenuto sabato mattina? Un’azione di copycat in cui uno squilibrato ha voluto imitare l’azione di un altro squilibrato? Mentre il pazzo numero 1, Simon Martial, è in carcere in attesa di processo, un pazzo numero 2 ripete tale e quale lo stesso gesto, forse alla ricerca della medesima macabra notorietà che era stata riservata a Simon Martial.
Lascio ad altri il tentativo di trovare spiegazioni — cliniche, mentali o psicologiche. A me quello che importa capire è l’impatto sul pubblico di queste azioni. Dopo l’atroce morte di Michelle, i newyorkesi erano rimasti profondamente scossi e giustamente allarmati, domandandosi come avrebbero potuto continuare a usare la metropolitana sentendosi al sicuro. Il ripetersi di un’azione identica una settimana dopo moltiplica in modo esponenziale i timori emersi il sabato precedente.

Diventa allora cruciale che il sindaco Eric Adams si muova in fretta per valutare una proposta emersa nei giorni scorsi: servono barriere protettive lungo le banchine della metropolitana, simili a quelle che sono in funzione per esempio a Parigi e a Hong Kong. È un’idea che da qualche tempo è in considerazione anche a Toronto, dopo che un canadese di 58 anni era morto per essere caduto sui binari. La realtà della metropolitana di Toronto è assai più piccola rispetto a quella di New York. Eppure anche a Toronto il costo sarebbe enorme: si parla di circa un miliardo di dollari. Figuriamoci il costo per New York.
Come prima cifra indicativa ci si aggira sui 10 miliardi di dollari. Un investimento difficile per l’MTA, l’ente per i trasporti pubblici della Grande Mela, che in questo periodo sta facendo i conti con un deficit di 15 miliardi di dollari. A questo si aggiunge la particolare difficoltà causata dal basso numero di passeggeri. Il Covid ha portato moltissimi pendolari a lavorare da casa; inoltre, una crescente ondata di violenza in metropolitana ha spinto molti newyorkesi a scegliere metodi di trasporto pubblico alternativi. È la tempesta perfetta.
Il problema pratico è montare barriere in un sistema della metropolitana vecchio di 110 anni con 468 stazioni e dieci tipi differenti di vagoni. Sí, perché la metropolitana di New York non è nata nel 1912 come sistema unico di trasporto che si è semplicemente ampliato nel giro dei decenni, seguendo la crescita della città. No, l’attuale metropolitana newyorkese è il frutto della difficile integrazione di reti separate avvenuta nel corso del tempo. Ogni rete aveva binari, vagoni e stazioni di dimensioni differenti, e a distanza di anni le differenze rimangono quelle di sempre. Figuriamoci dunque la sfida di creare barriere che possano essere adattate a reti sotterranee profondamente diverse.

Una barriera protettiva è già in funzione a New York. La conoscono bene coloro che hanno preso i mezzi pubblici per andare o venire dall’aeroporto Kennedy. Si prende il cosiddetto airtrain le cui porte si aprono esattamente in corrispondenza, con vetrate che proteggono il pubblico dai binari. Ma espandere questo concetto a tutta la rete, anche se i soldi fossero già disponibili, significa mettere d’accordo un grandissimo numero di persone coinvolte per arrivare a una gara d’appalto che spiani il percorso alla produzione e istallazione di barriere. I tempi sono verosimilmente lunghissimi. Parliamo di anni prima che tutte le stazioni siano protette. E nel frattempo, che cosa facciamo? Continuiamo a contare i morti sui binari? E già che ci siamo, continuiamo a contare il numero di passeggeri in preoccupante diminuzione.