E all’improvviso fu il grigio. Quel non colore spesso, polveroso, l’11 Settembre 2001 avvolse tutta l’area del World Trade Center. Si diffuse rapido in buona parte di Manhattan, di Brooklyn, del New Jersey. Sulle strade. Nelle anime. Il grigio fu il colore della paura, della desolazione, delle tinte che non riuscivano a bucare lo schermo nonostante il cielo dell’undici settembre fosse di un azzurro frizzante, limpido, quello di un giorno qualunque.

Quel blu fu inghiottito dall’odio, ogni luce si spense. Furono quasi tremila i morti provocati dall’impatto dei due aerei sulle Torri e di quello su Pentagono, oltre 6 mila i feriti. Tutta l’area del World Trade Center di New York precipitò in una lunga notte. Al dolore per le morti di chi lavorava in quell’area, e di centinaia di soccorritori del FDNY e del NYPD, si aggiunse il risvolto economico. L’attentato provocò un impatto enorme sull’economia non solo in Lower Manhattan, ma anche sui mercati globali. La vicina Wall Street fu chiusa per una settimana. La città fu pervasa da un odore acre e pungente al punto che in molti, a lungo, non aprirono più le finestre. C’era polvere ovunque. E cambiarono anche i suoni di fondo. Sirene, tante, nei primi giorni. Ruspe, tonfi e scricchiolii di macerie per molto tempo dopo l’attentato.
Si scavò fino al maggio 2002 per rimuovere i detriti da Ground Zero. Ma nemmeno due mesi dopo si parlava già di ricostruzione e nasceva una commissione per esaminare il da farsi. Ad agosto 2002 fu annunciato il concorso per la progettazione del sito, che si aggiudicò, l’anno successivo, lo studio dell’architetto polacco-americano Daniel Libeskind. Fu lui a immaginare il memoriale al posto delle Torri, ma la sua proposta originale fu rivista nei dettagli insieme a Silverstein e Skidmore, Owings and Merrill. I lavori per ricostruire tutta l’area, e il nuovo grattacielo simbolo di New York, il One World Trade Center, cominciarono nel 2006.

E’ un edificio alto 541 metri, più conosciuto come Freedom Tower, ed è stato inaugurato nel 2014. E’ costato da solo 3 miliardi e 800 milioni di dollari. Per tutto questo tempo, e parzialmente ancora oggi, tutta l’area WTC è stata un immenso cantiere. Un’operosità palpabile, commovente, che parte da lontano. Il suo spirito lo si riconosce ad Ellis Island, l’isola in cui un tempo sbarcavano gli immigrati di tutto il mondo, in cerca di un futuro migliore nel sogno americano. Ebbene proprio lì, a Ellis Island, c’è un’immensa sezione dedicata a tutto ciò che è stato costruito a New York grazie agli immigrati e alla loro manodopera. C’è la storia della buona edilizia, quella tramandata di padre in figlio, la stessa che abbiamo riconosciuto a Ground Zero quando i lavori erano ancora in corso. C’erano operai, ingegneri ed architetti di ogni nazionalità a ricostruire il WTC. A testa china non si distraevano un secondo dal loro lavoro. Li abbiamo visti manovrare mezzi, spostare immense vetrate, arrampicarsi sulle “ali” dell’Oculus di Calatrava in costruzione.

La colonna sonora dell’area del WTC è stata a lungo il frastuono dei martelli pneumatici. Il vecchio e il nuovo sembravano sovrapporsi, senza per questo cancellare il desiderio di memoria, ma sublimando la necessità di conservare i reperti dell’attentato, esposti al pubblico ancor prima dell’inaugurazione del Museo dell’11 Settembre. Nel 2012 c’era già una mostra a downtown, poco distante dalle due fontane in marmo, realizzate al posto delle torri, su cui sono impressi tutti i nomi delle vittime. Diverse tracce di quello che fu l’11 Settembre sono state esposte anche al Museo della Polizia di New York, in Old Slip, ormai chiuso da anni.
La ferita alla città, così profonda e tagliente, ha commosso il mondo e nessuno ha voluto dimenticare. Da quando è stato inaugurato il museo, nel maggio 2014, migliaia di persone di ogni nazionalità lo hanno visitato in un ovattato silenzio. Lì ci sono le scale, quelle d’emergenza, usate da chi fuggiva dalle Torri in fiamme. Ci sono le lamiere contorte. I mezzi dei Vigili del Fuoco distrutti. Le storie delle vittime raccontate da un orologio, una scarpa, un abito, un abbonamento alla metro, un paio di occhiali. Oggetti immobili, silenti, che ci parlano di vite distrutte. Ci sono le registrazioni originali delle richieste di aiuto, degli ultimi messaggi ai propri cari. Voci dall’orrore. Basti pensare che è di questi giorni la notizia che soltanto adesso sono state identificate dall’ufficio del medico legale di New York altre due vittime. E che ancora oggi migliaia di persone esposte alle polveri scaturite dal crollo soffrono di diverse patologie, dai problemi respiratori al cancro.

All’interno del museo c’è ancora molto grigio, ma è nell’azzurro, quel colore violato l’11 Settembre, che spunta una frase di Virgilio: “No day shall erase you from the memory of time”, ovvero “Nessun giorno vi cancellerà dalla memoria del tempo”. E non importa se vent’anni dopo l’area del WTC ha cambiato volto, se gli alberi intorno al Memorial sono cresciuti, se sono stati realizzati nuovi collegamenti Path e della metropolitana, il Fulton Center. Il ricordo è vivo e viene tramandato anche a chi oggi è troppo giovane per aver vissuto l’angoscia di momenti che ha visto solo in documentari in tv.
L’11 Settembre 2001 è il giorno in cui, nel mondo, sono cambiati i controlli, i voli, le relazioni internazionali. L’11 settembre del 2021 è in piena epoca di una pandemia che si è portata via altre vite e che ha sferzato in modo differente molte attività economiche e commerciali di downtown Manhattan. Ma l’azzurro quello si, è tornato. Si riflette ogni giorno sulla Freedom Tower, che a starci sotto sembra toccare il cielo.