La storia di Sarah Patellos cattura la crisi in cui è sprofondata New York. Fino all’inizio di marzo 2020 questa ragazza di ventinove anni abitava a Brooklyn, più precisamente nella parte più trendy di Brooklyn chiamata Williamsburg. Ogni giorno prendeva la metropolitana — linea L — e andava a lavorare a Manhattan. Il suo ufficio era al numero 4 World Trade Center, a un passo da Ground Zero. Anche il suo impiego era trendy. Lavorava per Spotify, il gigante della musica in streaming con sede a Stoccolma. Sarah è una delle 6500 persone che Spotify impiega in giro per il mondo, molte a New York dove l’azienda occupa sedici piani del grattacielo vicino a Ground Zero.

Quando nel marzo dello scorso anno New York era andata in lockdown, Sarah si trovava in California, in un paesino di montagna chiamato Truckee. Nell’impossibilità di tornare a Brooklyn e in ufficio, Sarah era rimasta a Truckee, pur continuando a lavorare in smart working per Spotify. Un anno dopo è ancora li. “Adoro essere a New York, ma la vita per tutti adesso è differente. Questo è un nuovo capitolo fatto di esperienze differenti”, afferma questa giovane bionda, attraente e vivace il cui aspetto sembra catturare alla perfezione la gioventù in costante movimento, caratteristica di New York. Di tornare a Brooklyn non ci pensa affatto. Il suo posto di lavoro è più sicuro che mai con la società di musica in streaming che ha annunciato una drastica riduzione non già del personale ma degli uffici a New York. Lo smart working funziona benissimo non solo per Spotify, ma anche per aziende in tutt’altro settore. Per esempio lo studio legale Lowenstein Sanders sta per lasciare gli uffici che occupava nel centro di Manhattan. La maggior parte dei centoquaranta avvocati che impiega continueranno a lavorare da casa anche dopo che la pandemia sarà superata.
È un orientamento che ha contagiato moltissime società anche in Europa ma non esiste città al mondo che risentirà di questo cambiamento tanto quanto New York dove i centri direzionali sono due. Downtown c’è il distretto finanziario che si estende a raggiera intorno a Wall Street e a midtown c’è la congestionatissima area intorno a Rockefeller Center. Ogni giorno, prima dell’arrivo della pandemia, si riversavano su Manhattan oltre 1,6 milioni di pendolari la cui presenza metteva in moto una catena economica strabiliante: mezzi pubblici, taxi, parcheggi. Ma anche bar, ristoranti e tavole calde. Per non parlare poi di caffè, negozi e perfino lustrascarpe, fioristi, farmacie e mille altre attività che dipendevano dalla presenza di impiegati negli uffici dei due centri direzionali.

Soltanto il 15 per cento degli impiegati ha ripreso ad andare in ufficio e tutto fa pensare che questo numero non tornerà mai più a essere quello che era prima. Sì, ci sarà una lieve crescita, ma lo smartworking ha cambiato definitivamente le abitudini lavorative. Da un sondaggio condotto dalla Partnership for New York City solamente il 22 percento delle grandi società che ha uffici a Manhattan esigerà che i dipendenti tornino a lavorare in sede a tempo pieno. Il 66 percento è orientato verso un modello ibrido nel quale il personale sarà in ufficio solamente un paio di giorni alla settimana. Un altro 9 percento ha invece deciso che gli uffici sono una cosa del passato: in futuro sarà sufficiente una piccola sede direzionale con poche persone, mentre la maggior parte dei dipendenti potrà lavorare da casa. Non solo: potrà lavorare addirittura in un altro stato, come nel caso di Sarah Patellos che in California è a tre ore di fuso orario da New York.
Non si fa fatica a immaginare come questo profondo cambiamento nel mondo del lavoro avrà un impatto permanente su intere zone della Grande Mela che fino a un anno fa erano così congestionate da riuscire a fatica a camminare sui marciapiedi nelle ore di punta.
Che cosa ne sarà dei grattacieli del centro della città? Come verranno utilizzate queste torri di cristallo con la prospettiva di essere solo parzialmente occupate? Si incomincia a parlare di torri a uso misto. Non più solamente uffici occupati dal lunedì al venerdì, per lo più deserti di sera e durante il weekend. L’idea è di trasformare interi piani in abitazioni, non necessariamente di lusso. Si parla infatti di incentivi fiscali a grossi proprietari immobiliari per trasformare grattacieli commerciali in “affordable housing”, non precisamente case popolari, ma comunque abitazioni per fasce economiche medio-basse.
Non sarebbe la prima volta. Già dopo l’11 settembre erano state lanciate iniziative per rivitalizzare downtown dopo gli attacchi alle torri gemelle. Molte imprese avevano abbandonato il distretto finanziario con la voragine di Ground Zero che per anni era lì a ricordare la tragedia dell’11 settembre.

Ecco allora che c’erano stati sforzi per convincere i newyorkesi a trasferirsi a vivere nel distretto finanziario. Un’operazione non da poco perché allora la zona intorno a Wall Street era deserta di notte e non c’era neppure l’ombra di un negozio di alimentari o un grande magazzino. Per non parlare poi di scuole e asili-nido.
L’operazione era riuscita e poco per volta la zona era diventata a uso misto. Ma in confronto quello che avvenne allora è nulla rispetto a quello che sta avvenendo adesso nel centro commerciale di Manhattan. La sfida questa volta non è di convincere i newyorkesi a vivere in centro. La sfida è di trasformare in abitazioni intere torri di cristallo che erano state pensate solo ed esclusivamente a uso commerciale. Possiamo scommetterci che il futuro del cuore commerciale di New York sarà una delle battaglie principali su cui verrà combattuta la campagna elettorale per il nuovo sindaco di New York. Mancano esattamente sette mesi alle elezioni. I newyorkesi andranno alle urne il 2 novembre. Per il momento è difficile immaginare che il centro di Manhattan sarà molto diverso dal deserto che è ora.