Quello di sabato é stato un evento a cui non ho voluto mancare. Sono andato al museo, nonostante il brutto tempo e la pioggia a intermittenza, sia con la curiositá del giornalista che con la voglia di manifestare solidarietá nei confronti della cittá dove vivo da anni. Altri musei hanno annunciato che riapriranno nelle prossime settimane. Il Whitney riaprirá il 3 settembre, il Museum of Natural History il 9, mentre il Brooklyn Museum é previsto che riapra il 12 settembre. Al Guggenheim invece il pubblico non tornerá fino al 30 settembre. In tutti i musei ci si aspetta che sia un pubblico prevalentemente di newyorkesi in attesa che a riempire le sale torni ad essere il turismo nazionale e internazionale.

Alle nove di sabato mattina, un’ora prima che il pubblico venisse ammesso, già si era formata una lunga coda di visitatori che si snodava alla destra dell’ingresso principale. In fila ci saranno stato due o trecento persone. Difficile dire a occhio quante fossero perché la coda era particolarmente lunga per la necessità di osservare la distanza sociale. Due o trecento persone non sono molte per un’istituzione come il Met, ma erano abbastanza per rassicurare che i newyorkesi sono pronti a fare quello che possono per sostenere la loro città, azzoppata dal coronavirus. Un paio d’ore dopo quando sono uscito c’era ancora coda ma molto meno affollata. Gente che entrava alla spicciolata.
Curiosità del primo giorno? Tempo di andare in giro per New York solo perché era il weekend? Comunque c’era finalmente un senso di ritrovata normalità davanti all’imponente edificio del Met. C’erano taxi gialli che si fermavano facendo scendere persone davanti all’ingresso principale: un’attività del tutto normale che però per cinque mesi era mancata. Non c’era alcun motivo per i yellow cabs di fermarsi davanti al museo chiuso. Un senso di normalità veniva anche da quei tre baracchini che vendono hot dog, bibite e ciambelle, sul marciapiede davanti al Met con gente che mangiava e beveva seduta sui gradini del museo. In tempi normali questo non é uno spettacolo non particolarmente attraente. Ma in tempi di Covid faceva perfino piacere vedere la ripresa di questa semplice attività.

“É il primo evento culturale a cui partecipo da cinque mesi a questa parte,” mi dice una ragazza in coda. “Per tutti questi mesi sono rimasta a New York chiusa nel mio appartamento. Avrei potuto andare a casa dei miei genitori nel New Jersey ma ho preferito tenere duro”. Le chiedo perché fosse importante essere fra i primi a varcare le porte del Met. Mi dice che questo é il momento giusto per i newyorkesi di approfittare della propria città. “Mancano i turisti. Perché dunque non essere noi a fare i turisti a casa nostra?”
Mentre parliamo si avvicina uno degli uscieri del Metropolitan e ci prende la temperatura. Tutto a posto. Possiamo rimanere in coda. Mi rivolgo a quelli in fila direttamente dietro. É una coppia di mezza età. Lui fa il designer, lei si occupa di mammografie allo Sloan Kettering Cancer Hospital. “Siamo qui a sostegno della nostra città. Ci sono pochissimi stranieri e visitatori a New York ed é giusto dunque che siano i newyorkesi ad aiutare il rilancio dei nostri gioielli culturali”, dice il designer che solamente nelle ultime settimane ha ripreso a lavorare in studio. “Siamo in circa duecento persone ma solamente negli ultimi giorni siamo arrivati ad avere più di una decina di persone in studio. Gli altri hanno ancora paura e lavorano da casa”.
In coda dietro a questa coppia c’é una ragazza dai tratti asiatici. A prima vista mi sembra una turista ma è impossibile dirlo con certezza prima di scambiare due parole. “Vengo dalla Corea del Sud. Sono qua da sei mesi per motivi di studio ma di New York ho visto pochissimo”, dice in un inglese stentato. “Appena dopo il mio arrivo tutto si è fermato ed è per questo che non appena ho saputo che il Metropolitan Museum rapriva mi sono precipitata”.
Il ragazzo e la ragazzo in coda dietro alla coreana mi colpiscono. Non hanno l’aspetto di abituali frequentatori di musei. É un’osservazione superficiale e quindi sono ancora più curioso di parlare con loro. “Vengo dalle Filippine, vivo a New York da cinque anni ma non ho mai messo piede al Met”, mi dice la ragazza spiegando che è una questione di orari di lavoro. “Sono chef in un ristorante dove gli orari sono molto pesanti, ma il locale è chiuso da mesi e dunque questa è l’occasione giusta per fare cose che non ho mai potuto fare”. A motivarla a venire al Met in questa particolare giornata è stato il ragazzo che l’accompagna. “Eravamo compagni di scuola a Manila e ci siamo ritrovati a New York. Io il Met l’avevo già visitato una volta, lo scorso ottobre. Ero rimasto così colpito che ho voluto tornare oggi”.
Non c’é tempo per parlare con altre persone. Sono le dieci in punto e le porte del museo sono ora aperte. La fila si muove verso l’ingresso. Ad aspettare i visitatori non sono solamente le mostre permanenti del Met. Ci sono diverse esposizioni speciali che sono state allestite specificamente per celebrare i centocinquant’anni dalla fondazione del Metropolitan. Una di queste mostre è dedicata specificamente all’evoluzione di questa istituzione culturale che nacque nel 1870 senza neppure avere una sede permanente. Ora la sede del Met è talmente permanente da essere uno dei punti di riferimento più importanti per la ripresa della vita a New York nel lungo e difficile capitolo del coronavirus.
Andrea Visconti ha una rubrica online di attualità newyorkese. Visitatela qui