Ho avuto la fortuna recentemente di visitare il museo Guggenheim di New York e di vedervi, nell’ambito di un’esposizione dedicata ad Alberto Giacometti, la scultura “La piazza”. L’avevo già vista molti anni fa al Guggenheim di Venezia, museo che custodisce l’opera abitualmente. A distanza di anni che non oso nemmeno contare, la piazza mi ha fatto una notevole impressione ed è da qui che vorrei iniziare per tirare giù qualche considerazione sulla metropoli che è New York.
Intanto il nome, piazza. Rimanda ad una delle esperienze urbanistiche e sociali più importanti di tutti i tempi, fulcro da sempre di ogni cittadina per ogni dove. Il luogo che si disegna come apertura tra edifici preposti a diverse funzioni e che ha il compito di accogliere, di diventare teatro di incontro e di sosta. La piazza è il luogo della socialità per eccellenza. Questa di Giacometti è data da un basamento rettangolare, in bronzo e dagli angoli smussati, e da cinque figure sottili alla maniera inconfondibile dello scultore svizzero. Sono figurine eteree, si direbbe quasi esanimi se non fosse che sprigionano una loro energia e forza e persino una tensione dinamica: tutte sembrano avanzare, muoversi in direzioni incrociate le une verso le altre. Solo una, ed è quella connotata come figura femminile, sta immobile, resta rigida. Sembra quasi un punto di riferimento intorno a cui si muovono le altre, come se fosse l’edificio che manca alla radura, che si chiama piazza ma che di fatto è solo uno spazio aperto senza recinto alcuno. Mi viene da pensare che non ancora affacciato sulla frammentazione e il malessere delle città di oggi, luoghi talvolta senza centro e smembrati, Giacometti sul finire degli anni ‘40 abbia visto nelle sue figure in movimento una sorta di anticipazione: da un lato il male di vivere e la difficoltà di definire la propria identità, dall’altro il male di vivere in luoghi che pur avendo delle piazze di fatto non offrono quella coesione e quell’accoglienza che dovrebbero accompagnarsi alla condizione della civiltà come polis.
Mentre osservavo l’opera mi chiedevo come fosse possibile che queste figure tanto leggere, quasi invisibili come se avessero paura di esistere, possano darsi in modo così incisivo e pieno. Sono forse fantasmi? Sicuramente si pongono in relazione l’una con l’altra ed è questa loro natura che mi sembrava pregnante nella città in cui avevo la fortuna di osservarle, la città del movimento, delle relazioni e forse anche delle grande solitudini.
Poeticamente si stendono l’una verso l’altra le figure esili di Giacometti, meno poeticamente si muovono e si agitano freneticamente le persone per le strade di New York. Ci sono piazze a New York? Certamente, ci sono squares e plazas, la fantascientifica Times square, quasi il set di Blade runner; Madison square un po’ difficile da cogliere nella sua interezza e dominata dallo svettante Flatiron Building (ha una pianta triangolare ma è così poco ‘stabile’ che sembra un grosso punto interrogativo sul cielo); Whashington square con i suoi giardini, gli scoiattoli e le panchine, più storicamente piazza, ovvero luogo di sosta e di ritrovo. Soprattutto, ci sono le strade a New York, streets, e le avenues. Con il loro procedere ordinate e armoniose, sembrano fornire quanto più possibile punti di riferimento ad abitanti e camminatori, ben diversamente da ogni centro urbano della vecchia Europa, dove il reticolo di strade si propaga in modo ora uniforme e armonioso ora in modo caotico e irrazionale dal centro civico e religioso.
Ho pensato a lungo alle piazze ed alla vita cittadina osservando l’opera di Giacometti, e pur sapendo che non nasceva per evocare una precisa geografia, né tanto meno la regolare New York, mi è sembrato un adeguato contrappunto al mio essere lì, in quella città e non in un’altra. A New York tutti camminano, tutti. Invadono le strade e camminano, persone sgorgano dai portoni, dai taxi, dagli ingressi della subway, camminano come fosse la ragion d’essere nel mondo. E invadono streets ed avenues, in modo così massiccio che ti chiedi chi mai potrà sostare nelle squares che ogni tanto interrompono le une e le altre, se tutti sono impegnati come attori in uno spettacolo a correre freneticamente lungo le linee rette che compongono Manatthan.
Immersi e confusi nel fiume della folla abbiamo scoperto di non dovere fare alcunchè per mimetizzarci. Se una cosa ci ha subito colpito è stata proprio la naturalezza con cui gli abitanti del posto non ti guardano. Potresti anche andare in giro con i capelli blu e gialli, con un boa al posto della sciarpa o che so nudo con le scarpe da tennis: nessuno ti guarda. Nessuno. Il fatto colpisce un po’ degli europei di mezza età che provengono da città in cui non solo le piazze esistono eccome, ma in cui anche le strade sono coinvolte nel grande gioco sociale dell’osservazione e dell’intrico di sguardi. Tanto più se si tratta di europei di sottospecie siciliana, abituati al rito sia della taliata (sguardo) che della vasca (passeggiata) che si svolge nella piazza principale del paese, facendo avanti e indietro tra un capo e l’altro – che coinvolge anche i centri abitati più grandi.
Mi rendo conto che parlando di New York sto soprattutto scrivendo di Manhattan, che sarà pure uno dei luoghi più popolari e fascinosi con cui identifichiamo la città tout court, ma dobbiamo ricordare che si tratta solo di uno dei cinque distretti che la compongono. Manhattan finisce con l’imporsi per la sua struttura urbanistica, per la sua vitalità e per le sue attrazioni. A Manhattan trovi qualcosa che altrove non c’è, e che è meraviglioso da scoprire e osservare: i grattacieli. Queste torri della modernità, queste altezze che sfidano ogni legge e ogni senso della misura, hanno qualcosa di antico pur essendo il risultato del genio e dell’ingegno più contemporaneo, pur essendo la quintessenza del Novecento, secolo di invenzioni supreme. Hanno qualcosa di antico perché si propongono come naturali, come se fossero lì da sempre, con quel senso di ineluttabilità e di necessità che ho percepito solo al cospetto dei templi greci, delle cattedrali gotiche e di opere dalla compiutezza formale quali Santa Maria Novella di L.B. Alberti. Un caso che stia ricordando opere architettoniche investite da una funzione spirituale? Niente di più lontano dalle torri dell’Empire State, del Chrysler, del Rockfeller Center o della Freedom tower, luoghi del lavoro e della finanza. Ecco, forse trovano questo punto di contatto con le architetture della vecchia Europa prima ricordate: sono i templi di nuove fedi e nuove necessità: sono i templi del capitalismo.
Sembrano cavi, sembrano involucri vuoti. Elegantissimi e compatti. Poi scopri che vi si svolge della vita all’interno, quando ti avvicini e riesci perfino a sbirciare dentro. Succede quando percorri la tramway che collega l’East river al Queens, sul ponte Quensboor, e passi vicino ad alti edifici in cui oltre le grandi vetrate intravedi vita privata all’interno. Succede quando passeggi lungo la meravigliosa High Line, esempio di come il vecchio in disuso può diventare intelligente luogo vivo per l’oggi. La passeggiata ricavata in una vecchia ferrovia dismessa si snoda tra la 14ema e la 34ema strada sulla West coast e passa attraverso edifici che proprio grattacieli non sono ma che offrono la visione di ciò che deve essere l’abitare contemporaneo a Manhattan.
E’ dall’alto di questi edifici che lo sguardo si apre sull’incredibile paesaggio della città, paesaggio urbano per antonomasia, edificato fuori scala, con una densità che non ha paragone con la maggior parte delle città in cui ci troviamo a vivere o transitare. E’ dall’alto di questi edifici che abbiamo goduto dello spettacolo delle luci di notte, come se l’intera città diventasse un palcoscenico per noi, un teatro e fosse viva di una vitalità debordante. Si legge in ogni guida o articolo che New York è la città che non dorme mai. Ti puoi imbattere in squadre di operai che lavorano nottetempo così come puoi toglierti lo sfizio di sfamarti a qualunque ora del giorno. Sicuramente è la città che non tace mai. Sembra avere un suo respiro, un suo ansimare, come un placido ma non troppo indifeso animale che sonnecchia ma che in fondo è pronto all’azione. Abbiamo avvertito il suono – la voce, il verso, il canto – della città anche dall’alto della nostra stanza d’hotel, appollaiata in un edificio-torre in Lexington avenue. E’ qualcosa a cui ti abitui, credo. E forse quando non lo senti più sei diventato un vero newyorkese.
E poi accade questa cosa che guardi in alto, succede questa cosa che normalmente non fai: osservi secondo altre e nuove prospettive. Diffidate sempre di chi si dice abituato, di chi sostiene che avere visto una città nei film equivale a conoscerla, perché così non è, punto e basta. Vuoi mettere camminare in Middletown e alzare il naso per abbracciare con lo sguardo – rigorosamente da sotto in su – quel prodigio di grazia che è il Chrysler Building, tanto per dirne uno? Respirando quel traffico e ascoltando quei claxon? Devi sentirti piccolo, devi sapere di appartenere alla strada, al marciapiede, per potere coglierlo in tutta la sua eleganza. Devi dimenticare tutte le volte in cui lo hai visto nei film ambientati nella città o nelle sigle (la sigla di Sex and the City lo riporta in tutta la sua armonia déco) o chissà dove per vederlo davvero, in modo attivo e partecipe, e non con gli occhi di qualcun altro ma solo con i tuoi. E i tuoi occhi agiscono insieme alla memoria, alla sensibilità e agli affetti, agiscono insieme alle tue aspettative e a tutto quanto di immateriale e portentoso ti porti dentro. Adesso fai un’esperienza diversa e apprezzi il lembo di cielo che si ritaglia tra il suo volume e i palazzi intorno, e i disegni delle ombre e delle luci, e le increspature delle nuvole se ci sono.
Siamo abituati a visioni estreme, a prospettive che seguono tutte le direzioni, da quando il cinema e i videogiochi sono entrati nelle nostre vite. Ma è pur positivo ricordarsi e soprattutto vivere lo stupore, ricordarsi la meraviglia, e porsi per le strade come un abitante di un secolo fa mentre osserva il prodotto dell’ingegno e dell’audacia! Un po’ come deve essere stato all’epoca di Nadar, a Parigi alla fine del XIX secolo, quando il fotografo sperimentava la mongolfiera e insieme l’appena nata fotografia e ne derivava una visione dall’alto come non era mai successo e non si era mai sperimentato. Che senso di potere e di apertura, che visione panoramica che induce al piacere di osservare e scrutare! Ho cercato di vivere con stupore – come non avessi visto mai qualcosa del genere – la mia condizione di essere umano di un metro e sessantacinque al cospetto di un colosso di più di trecento metri di altezza.
Dicevo dei templi del capitalismo. E in effetti si respira un’aria pragmatica e fervida, operosa fino allo spasmo, a Manatthan. Come ha scritto Adam Gopnik in Una casa a New York, si è persa una delle tre cose che rendono una città tale: i negozi curiosi. Restano le luci sfavillanti e gli edifici imponenti e bellissimi, ma i piccoli e curiosi negozi, i negozi che nascono come dice lui dalle ossessioni dei loro gestori, che vuol dire poi che nascono dalle ossessioni e dalle passioni della città, non esistono più. Niente più artigiani, niente più negozi legati all’industria del cinema, laboratori di fotografia, di montaggio, o piccole botteghe di sarti, e molto altro ancora. L’eterogeneità, la specificità di un tempo non esiste più. Non ci sono se non negozi di cibo, abiti e gran moda. Cibo e vestiti. Borse e hamburger, hot dog e Gucci, Banana Republic e Starbucks e Armani e GAP, in una giostra che continua continua continua, interrompendosi talvolta solo per altre tipologie di merci, come tecnologia e telefonia. Sembra non esserci altro nelle vite dei newyorkesi, inclusi i newyorkesi di passaggio.
Come sono le persone? Per quanto la domanda forse alla lunga non abbia senso, ma è inevitabile quando si va in viaggio, quando si è al cospetto di una grande novità. Ho percepito un’atmosfera vitale, attiva, poco incline all’introspezione. Le città hanno un’identità e non sono sufficienti pochi giorni per avvertirla, ma ognuno di noi ha una sensibilità e la mia mi ha portato ad avvertire nella Grande Mela una città estroversa e positiva, priva di quel fascino sensuale e dolciastro che ad esempio ho subito avvertito in Parigi, la città seducente per eccellenza, che un po’ esistenzialista lo è sempre rimasta. In compenso ha una velocità, una fisicità e un patrimonio visivo dato dalla storia del cinema che la rende un po’ nevrotica e impareggiabile in bellezza. NY è cinema ad ogni angolo, ad ogni strada, ad ogni panchina. Impossibile non pensare a tutti i titoli, agli attori, agli scorci… da A piedi nudi nel parco a Taxi driver, da Colazione da Tiffany a Hong Kong. La città stessa è un set, o forse è un film e noi non lo sappiamo.
Passeggiando ho sperato dentro di me di potere intravvedere un Woody Allen o un qualche sosia di Don Draper, il protagonista di Mad Man. In Madison avenue non ho potuto non pensare a quelle atmosfere, alla città delle pubblicità e del commercio, di cui la serie fa un elegantissimo ritratto. Non ho incontrato né l’uno né l’altro, ma in compenso ho cercato la panchina della celebre locandina del film tra i più amati di Allen, sicuramente uno dei miei più amati del regista più nevrotico che ci sia ma anche più geniale, Manhattan. A quanto pare quella panchina non c’è più: le trasformazioni urbanistiche della città sono implacabili. Ma quella panchina resta come il sogno di una città che è al tempo stesso simbolo e materia, segno e pietra, un’opera d’arte a cielo aperto e un set in cui sei te stesso ma allo stesso tempo ti senti parte della magia di un film.