Una delle caratteristiche di New York che più mi ha colpita, da quando mesi fa sono atterrata nella Terra Promessa con il mio bagaglio carico di sogni da realizzare, è il modo inatteso, naturale, libero in cui si manifesta l’arte in questa città. Lo ammetto: prima di arrivare qui, albergava in me un po’ di quella spocchia tipica di noi italiani che, se da una parte sottovalutiamo troppo spesso le bellezze del nostro Paese, considerandole un semplice dato di fatto, dall’altra parte, quando siamo all’estero, non possiamo fare a meno di constatare la nostra, per così dire, “superiorità”. Superiorità a livello culturale, artistico e di buen vivir, per usare un termine mutuato dalla filosofia sociale sudamericana.
Su questa scia, chiusa nella mia italianissima torre d’avorio, non mi aspettavo di scoprire più di tanto sull’arte qui, nella modernissima e giovanissima New York. E non parlo di musei: parlo, piuttosto, di cultura, di storia, di arte viva che permea la città, sollecitando e stimolando chi vi trascorre un po’, poco o tanto che sia, del suo tempo.
Ed è proprio qui che mi sbagliavo. E non solo perché le strade e i parchi di New York brulicano come quelli di poche altre città al mondo di artisti e aspiranti tali. Un’ulteriore conferma mi è giunta dopo aver assistito allo spettacolo di chiusura della grande e famosa manifestazione, rigorosamente gratuita, Shakespeare in the Park, che metteva in scena la meno nota ma meritevole commedia del drammaturgo inglese “Twelfth Night”. Un autentico capolavoro di arte libera, in quanto accessibile a tutti: ricchi e poveri, addirittura non udenti – visto che porzioni dello spettacolo erano tradotte nella lingua dei segni -, bianchi, neri, gialli e chi più ne ha più ne metta. La diversità etnica e culturale di New York (che continuo a considerare una delle più grandi ricchezze della città) era riflessa nel cast, di un talento strepitoso. L’adattamento moderno di una classica commedia degli equivoci ha reso il tutto più godibile.
Arte libera, si diceva. In effetti, era proprio questo lo spirito dello spettacolo, nato dalla collaborazione tra il Public Theater, che organizza l’ormai consueta manifestazione Shakespeare in the Park, con Public Works, creata nel 2012 con l’obiettivo di coinvolgere gli abitanti di New York in progetti teatrali, incoraggiandoli a diventare creatori di arte e non solo spettatori. Public Works lavora con tante, diverse realtà comunitarie, invitando i loro membri a partecipare a workshop e spettacoli. E questo senso di comunità, nel vero senso del termine, traspariva forte e chiaro dalla messa in scena: abbattuto il muro tra palco e platea, ciò che è rimasto è l’arte pura, in tutte le sue manifestazioni. Compresa quella musicale, vera protagonista della serata, sin dalla dichiarazione iniziale di Orsino: “If music be the food of love, play on”.
In effetti, quella commedia è stata concepita come un musical, una variazione dell’adattamento musicale realizzato nel 2016 da Public Works. E a dimostrazione del ruolo di primo piano affidato alla musica, ai musicisti era riservato uno spazio ben visibile di palco, dietro un vetro, che non stonava in alcun modo con la scenografia teatrale. Il tutto, nella cornice da sogno del Delacorte Theater a Central Park, un vero e proprio teatro a cielo aperto che non sarà comparabile ai grandi anfiteatri greci nostrani, ma si sposa perfettamente con la natura circostante.
“Libera” è l’aggettivo che mi viene da attribuire più istintivamente a questa bella esperienza di mezza estate e, insieme a lei, alle tante forme d’arte che si rincorrono per le strade di New York. Un’arte libera dagli schemi, libera dai pregiudizi, dalle etichette troppo rigide; libera da un passato troppo ingombrante – dal quale, invece, non si può prescindere in luoghi, come l’Italia, che ne conservano le vestigia -, libera di sperimentare, libera di coinvolgere, libera di lasciarsi vivere da tutti.