Il mondo del volontariato made in Italy nella Grande Mela è stato protagonista al Consolato generale d’Italia, nell’ambito del ciclo “Meet the new Italians of New York” tradizionalmente dedicato alle “eccellenze” italiche. Una scelta, quella di inserire tante realtà di solidarietà e volontariato tra le “professioni di eccellenza” degli italiani all’estero, per la quale ci voleva, indubbiamente, coraggio e visione. Lo ha sottolineato anche il celebre giornalista Federico Rampini, invitato alla serata ospitata dal Console generale Francesco Genuardi in qualità di presentatore e moderatore del dibattito.
Un dibattito che ha visto intervenire ospiti illustri del settore: come Andrea Bartoli, della Comunità di Sant’Egidio di New York, lo chef Cesare Casella, protagonista di un progetto innovativo sull’alimentazione, e Gonzalo Juàrez De La Rasilla, Responsabile dell’Ufficio newyorkese di Enel, azienda che si distingue per il suo impegno nel sociale. Un incontro coronato da un gustoso banchetto a base di pizza offerto dall’italianissima new-entry nel campo della ristorazione newyorkese, Gino Sorbillo.
Una serata utile a ricordare, a noi italiani spesso più critici che fieri delle nostre origini, la lunga tradizione nel mondo della solidarietà e del volontariato che caratterizza il Belpaese, tradizione che, ha ricordato Rampini, potrebbe riassumersi citando due pilastri della nostra “cultura solidale”: il Cottolengo, dove è ambientata La giornata di uno scrutatore di Italo Calvino, e gli angeli del fango di Firenze, quei tanti giovani che con coraggio e abnegazione diedero prova di grande solidarietà in occasione dell’alluvione del 1966.
Ed è stato proprio questo lo spirito che ha animato l’intera serata, che ha visto alternarsi tante testimonianze di generosità all’italiana. Una generosità che, come ha notato il giornalista, è intrisa di professionalità, nonostante non comporti scambi di denaro. Tra le testimonianze, quella della Comunità di Sant’Egidio è stata, più che una novità, una conferma: la conferma di quanto l’associazione, nata a Roma 50 anni fa da un ragazzo di 18 anni, oggi sia una realtà italiana consolidata in tanti Paesi del mondo. Bartoli ha ricordato come fu, nel 1973, Vincenzo Paglia – allora giovane prete e futuro arcivescovo che si era aggiunto alla comunità – a trovarle un nome. Un nome che si è scelto deliberatamente di non tradurre: Sant’Egidio è tale in Italia e tale rimane anche nel resto del mondo, perché, ha affermato Bartoli, “le radici contano”. E proprio come è impegnata a fare nel Belpaese, anche nella Grande Mela la comunità è in prima linea, diverse sere a settimana, nel prendersi cura dei più deboli ed emarginati nelle fredde stazioni newyorkesi, e nell’offrire pasti caldi a chi non può permetterseli. La sua filosofia è che, in un mondo in cui la solitudine conta, “incontrarsi è un sacramento”. Non a caso, il pranzo di Natale della comunità di Sant’Egidio offre calore, carità e, perché no, gustose pietanze a oltre 200mila persone nel mondo.
Altra esperienza di grande rilievo, quello dello chef Cesare Casella, giunto a New York nel 1991 per lanciare la sua carriera americana in un noto ristorante in Upper East Side. Due anni fa, è uscito dal mondo di ristorazione, e ha cominciato a dedicarsi interamente non solo all’insegnamento presso l’International Culinary Center (di cui è presidente), ma anche al volontariato, campo in cui, in realtà, era già impegnato da almeno 15 anni. Casella, in particolare, si dedica in prima linea alla cura di bambini e adulti con disabilità multiple: The Center for Discovery, di cui è promotore, è infatti un centro che ha lo scopo di aiutare persone diversamente abili di tutte le età attraverso cibi naturali, organici, prodotti all’interno della farm. “Sono convinto che mangiando meglio si possa anche stare meglio”, ha affermato. Una massima certamente condivisa da Gino Sorbillo, che, in virtù del suo recente “sbarco” nella Grande Mela, ha offerto agli ospiti il rinfresco finale. Il tutto, all’insegna di quella inconfondibile qualità all’italiana che però, come si è visto, non si ferma all’arte, alla bellezza e al buon cibo, ma ad esse unisce anche una naturale propensione alla solidarietà. Che, dopotutto, è forse tra i caratteri italici di cui andare più fieri.