
Nessuno riuscì a ricordare il suo numero di telefono quella mattina. Eppure, lo conoscevano a memoria. L’avevano composto centinaia di volte. Quel giorno, all’improvviso, tutto si fermò. Successe di martedì, in una giornata ordinaria di settembre.
Emmelina era nella sua stanza. Stava scegliendo cosa indossare e aveva la radio accesa. Fu la prima a sentire la notizia, perché tutte le trasmissioni furono interrotte. Un aereo aveva colpito un palazzo. La Torre Nord del World Trade Center. Scese le scale di legno, di corsa, urlando. Disse ai suoi genitori di accendere la televisione. Non erano ancora le nove. Una colonna di fumo nero, denso, usciva dalle finestre del grattacielo. Suo fratello, David De Feo, lavorava a Ground Zero, al 104esimo piano della Torre Sud. Nessuno sapeva cosa stesse succedendo.
Emmelina provò a rintracciarlo, ma il telefono era staccato. “Gli lasciai un messaggio in segreteria chiedendo se potesse ricontattarci. Lo fece poco dopo”, spiega la sorella a La Voce di New York. Con David parlò solo la madre, Luisa: “Mi disse: «Stai tranquilla, mamma. Stai calma. Ti voglio bene. Non c’è nulla di cui preoccuparsi». Avevo la sensazione che stesse succedendo qualcosa di strano, non poteva essere un errore. O un incidente. Attaccai il telefono, mi girai e subito dopo vidi, in tv, il secondo aereo colpire la sua torre. Sapevo di averlo perso. In quel momento capii che lui non c’era più. Era come se qualcosa avesse colpito anche me”.
My son has gone, mio figlio se n’è andato. Luisa ripete spesso questa frase, mentre è appoggiata al tavolo della sala da pranzo. Dietro di lei, tante foto di David. In divisa militare. Per la prima Comunione. Nel giorno del suo matrimonio. Era un ragazzo alto con gli occhi scuri e un bel sorriso. Fu una delle 2997 vittime di quell’attentato. A Ground Zero aveva iniziato a lavorare cinque anni prima. Morì a 36 anni. “Ne avrebbe compiuti 37, il 12 ottobre. Era nato nel Columbus Day. Era davvero una persona speciale”, spiega sorridendo la madre. Si era sposato con una maestra delle scuole elementari qualche anno prima, ma non avevano ancora avuto figli.
Da poco avevano comprato una casa e quel giorno, David, aveva deciso di entrare in ufficio prima dell’orario stabilito: “Si trovò lì, a quell’ora, per puro caso. Nel pomeriggio gli avrebbero dovuto consegnare degli elettrodomestici che avevano ordinato qualche giorno prima. Decise di iniziare presto per finire prima”, racconta Emmelina. David era nato a New York ed era cresciuto nel Queens, insieme alla sua famiglia, che aveva origini italiane. A casa dei genitori, entrambi campani, si parlava italiano.
Le ore successive all’attentato furono surreali. “Realizzammo che non saremmo potuti andare in città, perciò siamo rimasti qui, a casa, cercando di comprendere che cosa stesse succedendo. E penso che noi l’avessimo capito anche se non volevamo crederci. Mio marito, che era molto malato in quel periodo, continuava a ripetere che David era una persona forte e che se la sarebbe cavata. Ma il modo in cui quell’aereo aveva colpito la torre non lasciava alcuna via di fuga per chi si trovava nell’edificio”, continua Luisa.
Emmelina ha gli occhi lucidi, mentre parla di suo fratello seduta sul divano. “Lui era lì, a quell’ora, mentre non ci doveva essere ed è morto per cose che non avevano a che fare con lui. Come tutte le vittime. Ha sofferto e se n’è andato per qualcosa di cui non c’entrava nulla. Per giochi di potere di altri”. Il silenzio, in casa, è interrotto soltanto dalle figlie di Emmelina che stanno giocando. Di David nessuno ha mai trovato nulla. Né un indumento, né un effetto personale. Di lui è rimasta soltanto la ID Card. La conserva Sofia, la moglie. Che ogni anno, torna a Ground Zero.

Luisa, cosa riesce a ricordare delle ore successive all’attentato?
RISPOSTA LUISA: “Una grandissima confusione. Non riuscii nemmeno a chiamare l’altro mio figlio, Claudio, che viveva in Florida. Siccome aerei e treni erano fermi, lui salì in macchina, lasciò tutto e guidò fino a qui (New York, ndr) per più di 15 ore. Lo vidi la mattina dopo scendere dalla macchina di fronte a casa (si commuove, ndr). Mi disse che non si erano mai fermati, che nessuno li aveva fermati e che voleva essere con noi”.
Poi che cosa accadde?
“Dopo siamo solo stati insieme e abbiamo fatto altre telefonate. Ascoltavamo attentamente le indicazioni del sindaco Rudolph Giuliani, che ci dava informazioni su cosa fare. Sono stati un paio di giorni in cui ricordi e non ricordi un sacco di cose. È stata dura, molto dura. Non siamo mai andati a dormire. Nemmeno mio marito che era gravemente malato e aveva appena subito un intervento”.
Chi avvertì sua moglie Sofia?
“Non lo so. Non le chiesi mai se fosse riuscita a parlare con lui: era una questione troppo privata. Riuscimmo comunque a contattarla ma anche lei non sapeva nulla. Restammo con lei tre giorni. Ha passato momenti davvero molto duri e difficili. Era fuori controllo. Tutti lo eravamo”.
Luisa, che rapporto avete con lei, oggi?
“Siamo rimasti in contatto con lei ma non la sentiamo spesso. Ora ha una famiglia, dei figli e non vogliamo sovraccaricarla di emozioni perché sono sicura che quando mi guarda si ricorda. Sa che quando ha voglia di parlare con me, può alzare il telefono e chiamarmi. Può farlo in ogni momento. La sento una o due volte l’anno. Lei è una persona davvero meravigliosa. Si amavano”.
Qualcuno di voi lo andò a cercare?
“I suoi fratelli. Lo cercarono per giorni. Claudio ed Emmelina, da quanto riesco a ricordare, ogni mattina molto presto andavano a Manhattan. Tornavano a casa, scuri in volto, con nessuna notizia. A noi non dicevano nulla di ciò che vedevano laggiù. Penso lo facessero per un senso di protezione nei nostri confronti”.
Luisa, quando capì che David non c’era davvero più?
“Le notti seguenti non riuscivo a dormire. Stavo in piedi tutta la notte aspettando qualche notizia. Il giovedì successivo (due giorni dopo, ndr), alle 4 del mattino, sentii il sindaco Giuliani dire: «Non c’è molto altro che possiamo fare. Dobbiamo iniziare a prendere i sacchi per i cadaveri». Dio, quando ho sentito queste parole sono impazzita”.
Che cosa fece?
“Ero in cucina, mio marito mi ha raggiunto. Sono corsa fuori casa, sono andata verso una chiesa, ma la chiesa era chiusa. Mentre camminavo sentivo l’odore di bruciato, che continuo a ricordare ancora oggi. Ero arrabbiata. Anche con il sacerdote: com’era possibile che la chiesa fosse chiusa, mi ripetevo. In ogni caso, qualcuno poi arrivò ad aprirla e mentre entravo ho visto tutto quel fumo. La messa era iniziata. Avevo lasciato mio marito a casa, perché era molto malato e non poteva muoversi abbastanza velocemente. Ma poco dopo lo trovai di fianco a me (sorride, ndr). Era venuto a vedere come mi sentissi. Poco dopo tornammo”.
Vi aspettava qualcuno a casa?
“Sì. Alcuni membri della famiglia, dei cugini e tante persone, che entravano e uscivano. C’erano anche alcuni di amici di David che chiedevano informazioni. Mio cugino, che era medico al Lennox Hill Hospital, arrivò con un libro da Manhattan: era la lista degli ospedali”.
Lui vi aiutò?
“Io gli chiesi in continuazione se pensava che David fosse in vita, se sapesse che cosa stava succedendo, se avesse sofferto. Lui sapeva che cercavamo risposte. Io ero così stanca, così esausta, che una notte mi addormentai immediatamente appena andata a letto. Dormii profondamente. Poi una voce, una voce dolcissima, mi ha chiamato. Ancora riesco a sentirla. «Luisa». Giuro, io penso fosse Dio che mi stava dicendo: «Non preoccuparti». È stata dura. Sono state emozioni contrastanti, anche oggi lo sono. Convivo con questo. Lui è sempre nel mio cuore. E mi manca. Non sarebbe mai dovuto succedere ma è successo, cosa ci posso fare?”.
Cosa la fece soffrire di più?
“Il fatto di non averlo mai trovato e di non avere un posto dove andare a piangerlo. Andiamo Ground Zero. È da qualche parte, laggiù”.

Cosa prova nel vedere le immagini in tv, oggi, per esempio?
“Non riesco a guardarle: le vedo tutti i giorni nella mia mente. Quando le altre persone ne parlano non realizzano ciò che ho provato io: per alcuni è storia, per me è un fatto personale. Non riuscirò mai a dimenticare. Non si può dimenticare una cosa del genere”.
Ogni 11 settembre andate a Ground Zero?
“All’inizio, mio marito e io, andavamo tutti gli anni. Ora lui non c’è più. Quando vado mi guardo introno e mi chiedo dove sia finita tutta quella povera gente. Osservo quel buco e penso che, forse, laggiù c’è anche mio figlio. Negli ultimi due anni non sono andata però: è troppo. Preferisco andare quando è tutto più tranquillo. Ci sono tante persone che, purtroppo, non rispettano quel luogo perché non hanno vissuto ciò che ho vissuto io. Io me ne sto alla larga. Ci vado quando sento il bisogno di andare”.
Che cosa prova, adesso, da madre, Luisa?
“All’inizio provai rabbia. Non potevo vedere queste persone (gli attentatori, ndr). Avrei voluto solo strangolarli per la rabbia che avevo dentro. Ma negli anni, mi sono chiesta che cosa stessi facendo a me stessa con questo sentimento. Non mi aiutava e avevo altri due figli da amare, che avevano bisogno di me. Mi sono detta che avrei dovuto continuare a vivere per loro e per la memoria di David, che è sempre viva”.
Emmelina, quella mattina la prima a sentire la notizia fu proprio lei.
“Sì. Ricordo che la musica si interruppe bruscamente. Ricordo che, all’inizio, c’era chi parlava di un incidente. Era successa una cosa simile anche all’Empire State Building qualche anno prima. Appena accesi la tv, non capii nemmeno se la torre colpita fosse quella dove lavorava mio fratello”.
Come mai?
“Ero spaventata e confusa. C’erano fiamme dappertutto e tanto fumo. Mia madre notò, poco dopo aver parlato con lui, che David era troppo calmo. Mi disse: «Era troppo calmo, non sembra nemmeno la voce di tuo fratello». In realtà, tuttora, non sappiamo come riuscì a chiamarci. Poco dopo la sua telefonata non riuscimmo a contattare nessuno. Tutto sembrava essersi interrotto. La sua torre fu la prima a cadere, nonostante fosse stata la seconda a essere colpita. (Piange, ndr) Nessuno si aspettava una cosa del genere: quei due palazzi dovevano resistere a qualsiasi cosa, erano state costruite apposta”.

Che cosa ricorda di quelle ore, Emmelina?
RISPOSTA EMMELINA: “Fu come un colpo allo stomaco. Lo sentivi dentro. Non sembrava neanche vero. Ci siamo resi conto di tutto quando è caduta anche l’altra torre. Poi c’è stato il Pentagono e l’altro aereo caduto o abbattuto. Non lo sapremo mai. Fu uno shock totale: era come se qualcuno sparasse con una pistola”.
Che cosa intende dire?
“Era tutto così lento, come a rallentatore, e, allo stesso tempo, così veloce. Comunque, l’unica cosa che riesco a ricordare era quello stato di caos e un fastidio allo stomaco”.
Sapete come passò gli ultimi momenti?
“Io non gli parlai, purtroppo. Gli lasciai soltanto un messaggio in segreteria. Ma da quanto ho potuto capire lui era accanto a una sua amica molto cara, con cui lavorava. Lei era al telefono con suo marito, che tempo dopo ci disse che sentiva gente urlare e dire: «Non voglio morire». Anche lei piangeva. Pare che mio fratello le disse: «Dobbiamo andare, adesso».
Pensa che lui fosse al corrente della gravità del momento?
“Io credo che lui sapesse perfettamente cosa stesse succedendo. Ma lui era un militare e l’addestramento gli aveva imposto una certa calma nelle situazioni di pericolo”.
Qualcuno dei suoi colleghi riuscì a salvarsi?
“No non credo. Si salvò chi non era ancora lì. Era ancora presto e chi oggi è vivo è perché non è entrato in ufficio”.
Sua madre ha detto che a cercare David andaste voi, lei e Claudio. Che cosa ricorda di quel momento?
“Fu un’esperienza che non scorderò mai. Era come entrare in una città in guerra. C’erano camion di militari tutti armati a Manhattan. Dovevi girare con il passaporto per entrare. Tutti gli spazi aerei erano chiusi. La metro funzionava a singhiozzo. C’erano questi triage che accoglievano tutte le famiglie coinvolte. Non ci permettevano di andare vicino a cercarlo. L’unica cosa che potevamo fare era mettere degli annunci, con i nostri numeri di telefono. Abbiamo cercato il suo corpo per giorni”
Dove lo cercavate?
“Passavo le nottate praticamente in bianco, perché non c’era modo di contattare gli ospedali durante il giorno. Le linee erano tutte intasate. Io e mio fratello, dopo la mezzanotte, ci mettevamo a chiamare fino alla Pennsylvanya o a Boston. Abbiamo provato a sentire tutte le strutture, perché molti dei feriti venivano portati lì. Quello ci dava una speranza”.
Perché?
“Perché la tv parlava anche di persone disperse: c’era gente che aveva perso la memoria per lo shock. Noi ci aggrappavamo a quello. Abbiamo anche pensato fosse in coma, finito in ospedale senza identità. Io ero disperata: piangevo al telefono, perché il personale, magari, ci comunicava che non era arrivato nessuno. E io dalla rabbia e dalla tristezza, mi mettevo a urlare. Loro, molto carinamente, mi chiedevano di non piangere. Tutti erano disperati, anche se non avevano perso nessuno. Era tutto triste. Tutto profondamente triste. Continuai a sentire la puzza di bruciato per settimane. Era surreale”.
Ha mai pensato, in questi anni, che non fosse morto?
“(Sorride, ndr). Per tanto tempo abbiamo aspettato una cartolina. O che un giorno, magari, dopo anni, arrivasse alla porta. Io so che è morto e so anche che non tornerà mai più. Ma io non l’ho visto. Non c’è una tomba. È rimasto qualcosa di irrisolto”.
Che tipo era, suo fratello?
“(Sorride e sembra più sollevata, ndr). Aveva 11 anni più di me e io l’ho conosciuto crescendo. Era, per me, come un secondo papà. Era una persona solare, estremamente intelligente, con un grandissimo cuore. Era sempre lì, per chiunque. Era un ragazzo gioviale che amava scherzare tanto. Adorava l’inverno. Era un giocherellone che metteva le canzoni di Natale d’estate per farci ridere. Ogni volta che entrava in una stanza il suo sorriso illuminava ogni cosa”.
Era orgoglioso delle sue origini?
“Sì. È cresciuto parlando italiano, come ogni membro di questa famiglia. Era molto fiero della sua identità di chi era. Si sentiva italiano”.
Tornava spesso in Italia?
“Quando era più giovane di più. Ma era molto legato alle sue origini”.
Emmelina, ha mai avuto paura di dimenticarlo?
“Sempre”.

Che cosa teme di più adesso?
“Ho paura di dimenticare la sua voce, il suo volto, il suo modo di fare, i suoi gesti. Più passano gli anni e più pensi che al fatto di non aver avuto un futuro con quella persona. Non abbiamo avuto figli nello stesso momento e lui non c’era quando io mi sono sposata. Non ha mai visto le mie bambine. A volte ho paura di scordare anche la nostra infanzia. Lui, con cui ricordavo tante cose, non c’è più. Non è soltanto lui a essere morto, ma anche un pezzo della mia vita. Non ci sono più le telefonate tra di noi all’improvviso, le risate, le feste passate insieme. Non ci sono più i Natali”.
Anche lei ha mantenuto un bel rapporto con Sofia?
“Sì. La sento regolarmente. Ci scriviamo e l’anno scorso ci siamo viste a Ground Zero. Era già lì, con suo marito (il secondo, ndr), davanti al nome di mio fratello. David è rimasto sempre molto presente nella sua vita, anche dopo il matrimonio. Suo marito e i suoi figli lo conoscono”.
Sono passati 16 anni. Che cosa gli racconterebbe oggi? Che cosa vorrebbe dirgli?
“Direi che il mondo non è più quello che noi conoscevamo e che tante cose sono cambiate. Gli direi che mi manca e che mi è mancato tanto. Gli direi che mi dispiace, per lui, che non c’è più. E che amava così tanto la vita”.