Vivo a New York da dieci anni e, pur sostenendo i diritti degli LGBT senza limiti di nessuna sorta, non sempre partecipo al Gay Pride per una ragione fondamentale: ho una discreta paura della folla e, quindi, provo, se non è indispensabile fare altrimenti, ad evitarla.
Ho sfilato con il corteo, però, nell’anno in cui lo Stato di NY approvò il matrimonio fra coppie dello stesso sesso e ne ricordo, distintamente l’emozione. Di lì a poco, il diritto di veder riconosciuto il proprio amore sarebbe stato esteso al tutto il paese, grazie alla Corte Suprema, e l’America, come spesso durante la presidenza di Barack Obama, si sarebbe vestita di un arcobaleno pieno di speranza per un futuro migliore per tutti. Perché, ricordiamolo, quando migliorano i diritti delle cosiddette “minoranze”, migliorano i diritti di ciascuno di noi e il nostro essere “umani” acquista un senso sempre più preciso.
Quest’anno ho deciso di partecipare al Pride per due ragioni essenziali che poi si riducono a una: volevo sentirmi ancora più parte di una comunità che esprime al meglio l’anima migliore del paese, quella che difende l’accoglienza, l’integrazione e la cura delle minoranze e poi perché ho difficoltà a stare troppo a casa da quando la mia Dorothy non c’è più. La ragione, dunque, era, sostanzialmente, la necessità di sentire tanta positività intorno a me.
E, come sempre, il Pride non mi ha deluso. Immaginate una città, vestita a festa, con bandiere arcobaleno ovunque e gente di tutti i tipi – tutti i colori, tutte le forme, tutte le età, tutte le estrazioni sociali, tutti le religioni – invadere la città con musica, balli, costumi e voglia di stare insieme e poi sfilare sotto lo sguardo complice di poliziotti e organizzatori in un meccanismo che scivola via senza intoppi nonostante una folla, che si accalca ai lati della Quinta Strada, sempre più numerosa. Immaginate una città in cui i ristoranti espongono simboli del Pride e salutano i partecipanti e aprono i loro bagni a chiunque (e ci trovi comunque il rotolo di carta igienico disponibile!!!) mentre Google colora di arcobaleno il suo logo nel quartier generale sull’Ottava Avenue, e le banche e gli uffici hanno le vetrine piene di palloncini e omaggi alle “nuove famiglie”, volto nuovo di un’America che negli ultimi mesi, sembra sfuggirci dalle mani. Per questo dà speranza vedere l’ACLU aprire la parata e ospitare Chelsea Manning che, in virtù della grazia ricevuta da Barack Obama, può partecipare al suo primo Pride da donna libera; fa bene al cuore vedere il dipartimento della salute dello Stato di New York, distribuire preservativi, mentre Planned Parenthood difende il suo diritto a continuare ad aiutare milioni di donne, gratuitamente, nonostante i colpi mortali inferti dai tagli programmatici di Donald Trump. Basta poco, in verità, davvero poco, a comprendere che questo Pride ha scelto di essere “politico”, come da tempo non accadeva. Così, la parola “orgoglio” viene surclassata, per tutta la giornata, in quasi ogni evento, da un verbo che è monito da mesi, richiamo alle armi dell’attivismo e della partecipazione: resistere. Resistere a Trump e al suo governo che attacca le minoranze, punta a distruggere i poveri e salvaguardare i ricchi e, per definizione dello stesso presidente, è in grado di produrre progetti di legge come la Trumpcare, che sono “cattivi, crudeli”.

In questo momento, più che mai, i newyorchesi, e gli americani in generale, hanno la necessità di sentirsi uniti, protetti, sostenuti e di poter ancora guardare al futuro con ottimismo, senza la paura di perdere diritti che sembravano acquisiti. Come quello all’amore. Quello alla libertà di essere ciò che siamo senza vergogna, ma soprattutto senza paura.
Se dovessi raccogliere alcune immagini simboliche di questa giornata, per guardarle domani, e dopo, e sentire forte la speranza, sceglierei quella del sindaco Bill De Blasio che sfila in camicia bianca e che quotidianemnte si spende per combattere ogni tipo di discriminazione, quella del NYPD che ha coperto di arcobaleni le auto di servizio alla parata e quella della meravigliosa coppia le cui maglie formavano questa frase: “Insieme da 39 anni”. Gli ho chiesto il permesso di fotografarli e poi, scorgendo la commozione nei miei occhi, mi hanno abbracciata forte chiudendo alla perfezione un giorno inondato d’amore. Che, di questi tempi, con un presidente determinato a soffiare sulle fiamme dell’odio e dell’intolleranza, togliendo pezzetti di speranza dopo pezzetti di serenità, è già una grandissima iniezione di energia per ricominciare domani, a resistere.