
Dall’alto l’isola appare all’improvviso come una massa bruna, intervallata da terrazze verdi punteggiate da cupole bianche. Un mare azzurro intenso la circonda e una schiuma bianca fà da cornice alle rocce nere delle sue coste. E’ l’effetto Tramontana, il più frequente tra i venti di quest’ “isola dei venti”, e anche quello che mantiene il cielo limpido e l’aria fresca.
Il nostro Aereopostal atterra alle 17:35, con 15 minuti di anticipo e l’aereoporto è pieno di gente in attesa.
Ci incamminiamo alla ricerca della nostra 500 nel parcheggio dell’aeroporto, un’autovettura bianca di 25 anni suonati, una versione postuma e banale assemblata in Cecoslovacchia negli anni ‘90 che assomiglia più a un’Anglia o a una Panda, che al classico maggiolino.

A Pantelleria, le Panda costituiscono il 90% del parco macchina dell’isola, e sono inoltre in maggioranza bianche per cui, avendo dimenticato il numero di targa, non è facile individuarla.
Due anni fà mi infilai in una macchina bianca che credevo fosse la mia e, avendo trovato le chiavi sotto il sedile, scorrazzai per due giorni, fino a che un amico mi fece notare che non era la mia 500. Allora, feci il pieno e la riportai in aereoporto dove era ancora parcheggiato il mio bolide. Non ho mai saputo di chi fosse, non sono state sporte denunce ai carabinieri, e nessuno mi ha mai ringraziato per il pieno!

Questa volta, però, avevo chiesto a Salvatore di lasciare un ramo di fiori sul parabrezza, per poterla individuare. E così la vedo subito, semi-sepolta da un cespuglio di oleandri, e provo un misto di affetto e gratitudine dopo un anno di assenza.

In un anno possono succedere molte cose e nel nostro caso lo specchietto esterno del guidatore è mancante, mentre gli ammortizzatori che tengono sollevato lo sportello posteriore sono incapacitati. In complesso, l’autovettura sembra in forma smagliante e parte scoppiettando al mio primo tentativo.
Scendiamo la strada in discesa dell’aeroporto e bastano pochi metri per accorgerci di un rumore sospetto alla gomma posteriore sinistra. Mi fermo e riscontro di avere una gomma a terra!
Non faccio a tempo a imprecare che una panda rossa si ferma come per incanto dietro di noi, e un pantesco sorridente di mezz’età si offre di rigonfiare la gomma.
A Pantelleria le caratteristiche somatiche degli abitanti dell’isola dopo qualche anno si omogeneizzano, e tutti acquistano l’aspetto proprio del territorio. I cani, qui, non hanno razze precise, ma musi curiosi e sguardi strafottenti che li caratterizzano come “cani panteschi”. Così è per uomini e donne che, invecchiando, assumono corpi massicci, visi rotondi, bocche sdentate, nasi a patata, folte sopraccigli, fronti basse e radi capelli, caratteristiche che li rendono inequivocabilmente panteschi.
Il nostro “angelo” del momento si chiama Antonio e affitta Mehari ai turisti. Lo riconosco immediatamente come un classico esempio di maschio pantesco e, forse lui mi identifica come un classico turista, per cui mi saluta affettuosamente anche se non ci siamo mai incontrati prima di oggi.
E’ dotato di una pompa tecnologicamente avanzata (almeno per me che sono rimasto indietro) alimentata dalla batteria della macchina. Gonfia rapidamente la nostra gomma ma, quando si accorge della presenza di un grosso chiodo ancora sporgente dal copertone scuote le testa.
“Non riuscirete a raggiungere il paese con questo chiodo” – conclude, e ci domanda se abbiamo una gomma di scorta.

E’ una domanda a cui non so rispondere in quanto la nostra 500 è rimasta ibernata per circa un’anno, e non sappiamo se abbia ancora la gomma di scorta e gli attrezzi per cambiarla.
Ma è una giornata fortunata, e troviamo tutto il necessario al posto giusto. Antonio si mette immediatamente al lavoro e in meno di un quarto d’ora siamo pronti per proseguire. Gli offro una buona mancia che rifiuta con grazia.
“Mi offrirà una birra la prossima volta che ci incontriamo – mi dice, – qui cerchiamo tutti di aiutarci l’uno con l’altro”.

Rispondo che vengo a Pantelleria tutte le estati da 50 anni, e che questa attitudine non è più così frequente.
“Eh sì – mi risponde, – i tempi sono cambiati, la gente non si ferma più facilmente ad aiutare ….ha paura!”
“Paura? – chiedo…- di chi? Degli immigrati?”
“No – risponde Antonio, – di quelli un po’ drogati o che fanno spaccio di droga!”
“Una volta – continua- ho dato un passaggio a un autostoppista, poi la Finanza ci ha fermato e ha scoperto che il mio passeggero aveva addosso della “roba”, per cui l’hanno portato in Caserma, …. il brutto è che volevano portare anche me e sequestrarmi la macchina!”
Salutiamo Antonio e raggiungiamo il gommista in paese. Ci promette di sistemare la gomma bucata (il giorno dopo) e ci offre temporaneamente un’altra gomma di scorta. Poi, notata la mancanza dello specchietto di sinistra, mi dice che lui rottama macchine vecchie per cui, forse, ha uno specchietto per la mia 500.
“Perfetto – rispondo, – non ha anche un paio di ammortizzatori per lo sportello di dietro?”
“Forse – risponde, – torni domani!”
E’ il tramonto, e la luce è diventata calda e radente. Facciamo un po’ di spesa e ci avviamo verso casa. Il centro portuale di Pantelleria è un insediamento piuttosto squallido, ricostruito alla “brutta Eva” dopo che gli americani esplosero a freddo nel ‘44 il vecchio borgo per filmare la presa del primo territorio nemico. Questo film, per quanto un classico dei documentari della Seconda Guerra Mondiale, è uno dei tanti esempi storici di “fake news”.

Il centro pre-esistente era un villaggio di stampo arabo con alcuni interventi ottocenteschi, quali la piazza del municipio ed alcuni edifici pubblici. La ricostruzione del dopoguerra fu sgraziata e volgare e, ancora oggi, malgrado alcuni interventi importanti quali la passeggiata lungo il bacino del porto punteggiata di palme, il capoluogo di Pantelleria non ha mai recuperato lo charme spontaneo di allora.
Alcune barche in rovina, abbandonate da anni, costeggiano la strada che esce dal borgo, e le buche nell’asfalto sono le stesse dell’anno scorso. Ma basta allontanarsi dal borgo per riscoprire la magia dell’isola. Il tragitto prende circa mezz’ora, il paesaggio diventa progressivamente sublime, consentendo una totale immersione nella bellezza selvaggia dell’isola.

Arriviamo al bivio per Cala Levante e Cala Tramontana e cominciamo a scendere la strada tortuosa che porta al mare. Girata l’ultima curva ci troviamo di fronte a casa e, come tutti gli anni, tiriamo un sospiro di sollievo per il fatto che esista ancora e che sia sempre più immersa nella natura che la circonda.
Sistemiamo i bagagli e facciamo un primo tuffo nella caletta sottostante. Siamo soli e ci godiamo l’ultimo raggio di sole.
L’acqua è fresca ma non gelata. Incontro una medusa rossa, e ci lumiamo rispettosamente a distanza. Sono passate le otto di sera e c’è ancora luce, le giornate sono lunghe in questo periodo.
Il lungo viaggio di avvicinamento si è concluso, e proviamo improvvisamente una immensa stanchezza, specie Rebeca che negli ultimi cinque giorni è passata dal Giappone alla Cina, a New York e a Milano.

La prima cena è sana, leggera, deliziosa e a “chilometro zero”: una zuppa di verdure locali, a base di porri, “cucuzze”, zucche, patate e cipolle. Ci sdraiamo sulla cupola del Dammuso a guardare una grande luna piena e il cielo gremito di stelle e ci addormentiamo grati di tanta bellezza!
(Continua)