Lo scorso 28 e 29 giugno si è svolto un importante incontro del Consiglio europeo, l’organismo dell’Unione Europea composto dai 28 capi di governo degli Stati membri; al centro dell’agenda del vertice le politiche sulla migrazione.
Il Consiglio si è svolto in uno scenario fortemente polarizzato. Da una parte l’Italia, che chiedeva il riconoscimento del principio secondo cui i migranti che arrivano sul suolo di qualsiasi paese europeo giungono in realtà in Europa e quindi devono essere presi in carico dalla UE nel suo insieme, piuttosto che dal singolo stato – una richiesta questa, che implica un superamento radicale dell’attuale quadro regolativo (il cosiddetto regolamento di Dublino, che stabilisce che i migranti devono essere gestiti dal paese in cui arrivano), nella direzione di una distribuzione obbligatoria dei migranti tra gli stati membri dell’UE, indipendentemente dal paese di ingresso. Dall’altra parte, i paesi non esposti ai flussi migratori, disposti a fornire sostegno economico e politico all’Italia e agli altri paesi del Sud Europa, ma totalmente riluttanti ad assumere un’effettiva corresponsabilità sull’accoglienza (cioè ad accettare il principio delle quote obbligatorie). Come ulteriore e rilevante fattore di irrigidimento delle posizioni in campo, la situazione politica interna della Germania: il primo ministro Angela Merkel deve nelle ultime settimane fare i conti con la posizione del suo Ministro dell’Interno, Horst Seehofer, pronto a mettere in crisi il governo in assenza di una stretta sui migranti (es. restrizioni sui movimenti in avanti dei migranti).
Diversamente dalle previsioni di molti osservatori, pronti a scommettere sul fallimento del vertice, il Consiglio è stato in grado di raggiungere un accordo. Tuttavia, si è trattato di un compromesso puramente tattico, volto a evitare il fallimento, piuttosto che ad individuare soluzioni. Da un lato, l’Italia ha ricevuto un contentino in risposta alla sua richiesta di corresponsabilizzazione degli altri membri dell’UE; tuttavia, tale corresponsabilità dovrà essere “su base volontaria”, quindi “senza pregiudizio della riforma di Dublino”, vale a dire del quadro fortemente difeso dai paesi di Visegrad (Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca e Slovacchia), che rifiutano ogni riferimento all’idea di un coinvolgimento obbligatorio dei loro paesi. D’altro lato, la Germania ha ottenuto una dichiarazione esplicita contro i movimenti dei richiedenti asilo tra i paesi dell’UE (“i movimenti secondari dei richiedenti asilo tra gli Stati membri rischiano di compromettere l’integrità del sistema europeo comune di asilo e dell’acquis di Schengen”), necessaria alla Merkel per salvare il proprio governo. In breve, il Consiglio è riuscito a forgiare una nuova versione del verdetto del Dodo: tutti hanno vinto e tutti devono essere premiati.
Sfortunatamente però, l’Europa non è il Paese delle Meraviglie. Nei giorno immediatamente successivi la conclusione del vertice, nuove tensioni e polemiche hanno evidenziato quanto fragile e solo apparente fosse il compromesso – l’Italia ha rivendicato con ancora maggiore enfasi la decisione di rifiutare l’approdo nei propri porti alle navi ONG che trasportano i migranti salvati dal mare; Merkel ha raggiunto un accordo con Seehofer sulla base di una più rigida politica di ricollocazione e trasferimento dei migranti provenienti dagli altri stati dell’UE; in conseguenza di ciò, l’Austria ha espresso l’intenzione di potenziare i controlli alle frontiere così da evitare l’ingresso di migranti nel proprio territorio. Insomma, la soluzione di corto respiro trovata dal Consiglio non solo appare con tutta evidenza non in grado di affrontare i problemi reali; al contrario, contribuisce ad aggravarli, favorendo un irrigidimento dei confini sia esterni che interni. Ciò significa trasformare ancor di più il Mar Mediterraneo in un cimitero, come conseguenza dei vincoli imposti alle attività di soccorso in mare delle Ong (questi vincoli sono dovuti al fatto che le persone salvate dalle Ong sono migranti che poi devono essere ospitati) e correre rapidamente verso la dissoluzione di Schengen, ovvero dell’idea – centrale per l’identità europea – dell’assenza di confini all’interno dell’UE.
Sulla questione migrazione l’Europa sembra aver perso la propria anima: riconoscimento della dignità della persona, rispetto dei diritti umani, tolleranza, inclusione non sono state mai parole così vuote come lo sono oggi. I migranti (la loro vita, i loro diritti di essere salvati, curati, accolti, di muoversi liberamente, di avere progetti) non esistono per le politiche EU – ciò che conta sono i flussi migratori e come contrastarli. E con la sua anima, ciò che sta dissolvendosi è il progetto stesso dell’UE come entità unitaria (antropologica e quindi) politica, sostituita dalla pratica meno ambiziosa di un’Europa intesa come spazio di cooperazione tra entità nazionali; in ciò le visioni populiste, sovraniste e dell’ultra-destra possono affermare di aver già raccolto la loro vittoria.
Del resto, non potrebbe essere altrimenti, nella misura in cui le istituzioni europee e i politici che le interpretano, continuano a cercare soluzioni all’interno dello scenario politico e culturale dato. In tale scenario sono infatti possibili solo compromessi tattici e di superficie, di corto respiro, volti alla riduzione del danno; ma più si continua con questa logica, meno tempo rimane per trovare, prima che sia troppo tardi, una strategia di uscita.
Inutile dire che tale logica non va considerata dovuta alla cattiva volontà dei leader politici. La questione centrale è che la politica – e quindi le istituzioni – sono oggi prigionieri dell’opinione pubblica, di un’opinione pubblica fortemente “affettivizzata”, caratterizzata cioè da preferenze e investimenti alimentati da convinzioni emotivamente polarizzati. La recente analisi Re.Cri.Re. dell’ambiente culturale delle società europee ha evidenziato come le società europee siano attraversate e fortemente influenzate da una forma di costruzione dell’identità basata sulla nemicalizzazione dell’alterità – sempre più persone riconoscono di essere parte della propria comunità grazie alla e nei termini della condivisione del nemico. Ciò significa che se la migrazione non ci fosse, avrebbero dovuto inventarla. In realtà ciò è quanto che sta accadendo: il fatto stesso che i flussi migratori siano la questione centrale dell’agenda politica europea è il segnale di come la politica abbia perso la propria autonomia, per diventare lo specchio riflettente le emozioni che attraversano la società. La realtà racconta infatti una storia alquanto diversa: rispetto al 2015, i flussi si sono ridotti del 95% – la migrazione non è un problema rilevante in questo momento in Europa.
L’unica via d’uscita è che la politica e le istituzioni si riapproprino della loro autonomia. Le decisioni e le strategie dovrebbero essere definite sulla base delle richieste della società, ma per elaborarle e promuoverne lo sviluppo, non semplicemente per agirle; ma questo significa poter disporre degli strumenti interpretativi e metodologici necessari alla politica per entrare in rapporto dialettico con la società; in assenza di tali strumenti, le istituzioni non possono che limitarsi a rincorrere e a rispecchiare ciò che le persone sentono e credono, e ciò è ancora più vero nei momenti storici in cui sentimenti e convinzioni sono fortemente polarizzati.
Contrastare la lenta ma inesorabile dissoluzione del progetto europeo richiede dunque un duplice sforzo. Da un lato, gli scienziati sociali e politici dovrebbero fornire gli strumenti concettuali e metodologici per rielaborare le forme della politica, così da renderle appropriate allo scenario attuale di profonda disarticolazione tra istituzioni e società. D’altro lato, va elaborata ed esercitata una nuova visione dell’UE elaborata, basata sul riconoscimento del fatto che dove non c’è immaginazione del futuro e riconoscimento della ragione dell’altro, non vi è politica, quindi non vi è civiltà.
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