Alla fine, al Parlamento europeo. è passata la solita linea che penalizza le agricolture mediterranee. Con 500 voti a favore, 107 contrari e 42 astenuti è stata approvata “l’invasione” dell’olio di oliva tunisino in Europa. Per l’occasione sono stati rifatti i calcoli. Si pensava che, con lo sdoganamento di 35 mila tonnellate di olio d’oliva tunisino, nel Vecchio Continente sarebbero arrivate 70 mila tonnellate. Invece sono un po’ di più, perché di olio tunisino senza dazi doganali, in Europa, se ne contano già 56 mila e 700 tonnellate. Morale: in due anni i Paesi dell’Unione Europea avranno a disposizione circa 90 mila tonnellate di olio d’oliva tunisino.
Per fare che cosa? Ufficialmente, per dare una mano alla Tunisia. Ma questa tesi è vera solo in parte. Perché buona parte degli oliveti tunisini fanno capo a società europee (anche italiane) che hanno tutto l’interesse a importare in Europa l’olio prodotto in questo Paese. In Tunisia i costi di produzione sono molto più bassi rispetto ai Paesi europei che producono olio d’oliva extra vergine (Italia, Spagna, Portogallo e Grecia). Vendendo l’olio d’oliva tunisino che verrà ‘sistemato’ e fatto diventare ‘extra vergine’ al prezzo di 2,5-3 Euro a bottiglia di un litro-chilogrammo, queste società che operano in Tunisia guadagneranno una barca di soldi. E distruggeranno il vero olio d’oliva extra vergine che, per essere tale, non può essere venduto sotto i 5 Euro a bottiglia litro-chilogrammo (volendo essere precisi, 5 Euro è il costo di un chilogrammo-litro do olio d’oliva extra vergine acquistato a ‘bocca di frantoio’, cioè nei luoghi dove le olive vengono molite, perché l’olio d’oliva extra vergine imbottigliato da un litro-chilogrammo dovrebbe costare non meno di 6 Euro a bottiglia).
Insomma, questo accordo votato dal Parlamento Europeo aiuta in minima parte la Tunisia e in massima parte gli speculatori. E aiuta anche i sofisticatori. Eh già, perché a farsi i classici ‘bagni’ non saranno solo i titolari delle società che operano in Tunisia, ma anche chi utilizzerà questa grande massa di olio d’oliva tunisino per ‘trasformarlo’ in olio d’oliva extra vergine italiano. Da vendere in Italia e all’estero. Truffe, su truffe su truffe. Del resto, non diciamo una novità quando affermiamo che l’olio extra vergine di oliva è uno dei prodotti della dieta mediterranea più sofisticati d’Europa.
Un’altra questione importante riguarda la qualità dell’olio d’oliva extra vergine. Che nei Paesi europei, bene o male, è prodotto con un uso molto contenuto e controllato di pesticidi (esiste anche l’olio d’oliva extra vergine biologico, prodotto senza l’uso di pesticidi: ma il costo, a bottiglia, ‘viaggia’ oltre i 10 Euro: chi vende, o dice di vendere, olio d’oliva extra vergine biologico a prezzi simili o solo di poco superiori all’olio d’oliva extra vergine prodotto con tecniche agronomiche tradizionali vi sta solo prendendo in giro). In Italia – e anche in Spagna, in Portogallo e in Grecia – l’uso di pesticidi, lo ribadiamo, è contenuto e controllato. Ma nessuno sa come vengono prodotte in Tunisia le oliva da olio. Non è da escludere che utilizzino fitofarmaci (cioè pesticidi) che l’Europa ha bandito da decenni perché dannosi per la salute dell’uomo.
Dovrebbero essere dati conosciuti attraverso la cosiddetta ‘tracciabilità’ che dovrebbe contraddistinguere ogni prodotto. E cioè informazioni sul luogo di produzione, sulle tecniche agronomiche utilizzate (concimi, pesticidi e via continuando), sul periodo di raccolta del prodotto, sulle tecniche di conservazione (ricordiamo che i prodotti agricoli vengono ‘trattati’con sostanze naturali o di sintesi anche per essere conservati), sulle tecniche di lavorazione nel caso di prodotti trasformati (ed è il caso dell’olio d’oliva). Peccato che della ‘tracciabilità’ dei prodotto nell’Unione Europea, è proprio il caso di dirlo, non v’è traccia. La ‘tracciabilità’ ostacolerebbe il commercio, perché impedirebbe la libera circolazione di merci contraffatte. E siccome l’Unione Europea è la patria dei prodotti ‘taroccati’, il Parlamento Europeo e l’Unione Europea si guardano bene dal mettere in discussione un business che – per ciò che riguarda il solo made in Italy alimentare, vale almeno 60 miliardi di Euro .
Siamo arrivati al punto centrale del nostro ragionamento. In questa rubrica ci siamo già occupati dell’olio d’oliva extra vergine e delle sua innumerevoli truffe, anticipando, di fatto, quello che poi è avvenuto nel Parlamento Europeo. Oggi proveremo a dimostrare che le truffe alimentari nell’Unione Europea non sono un fenomeno recente, ma sono la ‘storia’ dell’Unione Europea.
Chi scrive, tra la fine degli anni ’70 e i primi anni ’80 del secolo passato, si è occupato proprio di agricoltura nell’Unione Europea, che allora si chiamava CEE (Comunità Economica Europea). Ricordiamo ancora i testi universitari di Economia agraria 2 (in pratica, si studiava anche la Politica economica agraria della CEE). E i primi articoli scritti sempre a proposito del mondo agricolo.
Molti di noi, ogni tanto, sentono parlare o leggono di multe che l’Unione Europea appioppa agli allevatori italiani di bovini da latte perché avrebbero violato le direttive comunitarie. Ma nessuno spiega, per filo e per segno, il perché gli allevatori italiani avrebbero violato le ‘leggi sacre’ dell’Europa unita. Il raggiro delle quote-latte – che allora era organizzato dalla CEE, di fatto contro i produttori di latte del Sud Europa e a favore dei produttori di latte del Nord Europa – comincia proprio in quegli anni. A in certo punto, arbitrariamente – la CEE decise di assegnare delle quote di produzione di latte ad ogni Paese. La CEE aveva allora il controllo su alcuni segmenti dell’agricoltura, a cominciare dalla zootecnia. Così si decise che ogni Paese non poteva allevare più di un certo numero di bovine da latte, per evitare sovrapproduzioni, si diceva.
Le decisioni adottate già allora erano illogiche. Perché penalizzavano soprattutto gli allevatori di bovini da latte della Padania, che venivano difesi male, o non venivano difesi affatto dai ministri dell’Agricoltura italiani dell’epoca che erano quasi sempre meridionali. Quegli accordi sulle quote latte erano sbagliati perché, con la scusa di evitare sovrapproduzioni, tutelavano, in realtà, il latte e il burro prodotti nei Paesi della Mitteleuropa. E penalizzavano oltremodo gli allevatori dei Paesi del Sud Europa.
Va detto che quest’impostazione truffaldina delle quote latte è passata indenne dalla CEE all’Unione Europea, tant’è vero che, ancora oggi, arrivano multe agli allevatori italiani. E ancora oggi gli allevatori italiani si ribellano. E hanno ragione da vendere.
Le grandi truffe la CEE prima e l’Unione Europea dopo le hanno sempre organizzate e messe in atto ai danni delle agricolture mediterranee. Oggi – e siamo nel 2016 – sentiamo parlare delle arance del Marocco che arrivano in Europa massacrando le produzioni agrumicole italiane e, in parte, spagnole. Ma queste operazioni truffaldine vanno in scena dai primi anni ’80. Chi scrive, già nel 1982-’83 descriveva la sistematica violazione del “principio delle preferenza comunitaria”. Questo “principio” impediva l’ingresso nell’area dell’allora CEE di prodotti agricoli che avrebbero fatto concorrenza sleale alle produzioni dei Paesi europei. Nel Nord Europa il “principio della preferenza comunitaria” era applicato in modo militare. E, nel complesso, funzionava anche per l’industria. Invece funzionava male, o non funzionava affatto, quando si trattava di difendere le produzioni del Sud Europa. Così, nell’Europa ‘unita’ di quegli anni, entravano agrumi di tutti i tipi – arance, limoni e persino pseudo-mandarini – che, sotto il profilo organolettico facevano letteralmente schifo, ma che la CEE barattava con Paesi extra comunitari per agevolare i Paesi del Nord Europa, o per agevolazioni all’industria.
E’ stato così per l’agrumicoltura italiana, che andava avanti grazie ai ‘Piani agrumi’ (in pratica agevolazioni) che venivano approvati dai Governi e dai Parlamenti italiani per ridurre gli effetti negativi delle politiche agricole comunitarie. Queste politiche agricole truffaldine, prima della CEE e oggi dell’Unione Europea, hanno massacrato non soltanto l’agrumicoltura, ma anche altri settori dell’agricoltura come, ad esempio, la nocciolicoltura, consentendo per anni l’arrivo di nocciole turche che – tanto per citare un esempio – hanno quasi raso al suolo la nocciolicoltura siciliana della provincia di Messina.
La situazione non è migliorata – anzi, per certi versi è peggiorata – con i fondi europei destinati all’agricoltura delle Regioni del Sud Italia che oggi si chiamano Regioni ad Obiettivo Convergenza (Campania, Puglia, Calabria e Sicilia). Questi fondi vengono spesi solo in parte e vanno, per lo più, ad alimentare sacche di clientelismo e, con molta probabilità, anche le mafie di queste quattro Regioni del Sud Italia.
Che la gestione dei fondi europei destinati al Sud Italia sia fonte di malaffare, anche mafioso, è cosa risaputa. Basti pensare che, tra il 2008 e il 2013, tra PSR e FEARS, sono stati stanziati, per la Sicilia, 5 miliardi circa di fondi europei. Dove sono finiti questi soldi? Nessuno lo sa con certezza. Si sa che una parte è stata utilizzata per fini che poco o nulla hanno a che spartire con l’agricoltura. Che un’altra fetta è finita a finti agricoltori. Che un’altra parte ancora è finita nelle tasche di politici e burocrati. Poi, il nulla. Inutile chiedere ai governi siciliani – a quello passato di Raffaele Lombardo e all’attuale di Rosario Crocetta – notizia su questi soldi. Faranno finta di non capire. Con la connivenza di un’Unione Europea di ‘banditi’, che si guarda bene dal chiedere ai governanti siciliani conto e ragione di questi 5 miliardi di Euro, gli attuali politici che governano la Sicilia parlano di come fare sparire i 2,2 miliardi di Euro del nuovo PSR, quello del 2014-2020. Del precedente, l’abbiamo già detto, non ci sono tracce, né notizie.
Quello che vi abbiamo raccontato sono fatti. La chiosa finale la dedichiamo agli ‘scienziati’ che, con linguaggio dotto, ci spiegano che l’Italia, nell’Unione Europea, ha sempre la peggio perché i suoi europarlamentari difendono male i propri interessi. E perché gli amministratori italiani – soprattutto quelli del Sud Italia – si disinteressano delle opportunità messa in campo dall’Unione Europee.
In genere, a fare questi discorsi sono persone che lavorano – o ‘trafficano’ – con l’Unione Europea. I loro discorsi sono interessati e sbagliati. Sono interessati nel caso in cui lavorano con un’Unione Europea che è oggettivamente pessima. Sono sbagliati perché dimenticano che lo spirito dell’Unione Europea degli anni ’50 e ’60 del secolo passato non prometteva una finta Unione dove i Paesi più forti (leggere la Germania) dettano legge ai più deboli. I presupposti erano altri. E sono tutti presupposti che sono stati calpestati.
Oggi, anche a voler seguire attentamente quello che combinano personaggi che nessuno ha mai eletto (ricordiamoci che nessuno elegge i componenti dell’esecutivo dell’Unione Europea, cioè della Commissione: si tratta di nomine imposte dalle massoneria finanziarie) non si ottiene nulla. Ne sanno qualcosa i pescatori siciliani che subiscono imposizioni assurde. Questi truffatori dell’Unione Europea – massoni, ‘banditi’ e portatori di interessi privati legati a grandi gruppi economici internazionali – hanno stabilito che i pescatori siciliani non debbono utilizzare certi attrezzi da pesca, ben sapendo che altri Paesi che si affacciano nel Mediterraneo e che non fanno parte dell’Unione Europea li utilizzano a piene mani. Così sfavoriscono i pescatori siciliani e favoriscono i pescatori di altri Paesi del Mediterraneo (o meglio di multinazionali che operano in tali Paesi extra UE).
Insomma, nel mondo della pesca a ‘cura’ dell’Unione Europea assistiamo a imposizioni ‘banditesche’ e truffaldine che hanno il solo scopo di agevolare società internazionali che, con molta probabilità, sono d’accordo con gli ‘eurocrati’ che introducono questi regolamenti-cappio per colpire le marinerie siciliane e calabresi. Tutti ormai si sono accorti di queste schifezze. E tutti vorrebbero liberarsi di un’Unione Europea di ‘banditi’ dove gli italiani sono costretti a restare da una classe politica corrotta e al soldo delle massonerie finanziarie europee.
Agricoltura e pesca sono due esempi del fallimento dell’Unione Europea. Da una parte il vergognoso accordo sull’olio d’oliva tunisino votato dagli europarlamentari del Partito Popolare e del Partito Socialista Europeo (PSE): guarda caso, i due schieramenti politici che governano e difendono l’attuale Unione Europea; dall’altra i regolamenti truffaldini sulla pesca. Come ci si salva dalla sciagura dell’Unione Europea dell’Euro che fino ad oggi ha tolto solo democrazia e ha peggiorato le condizioni economiche e sociali di alcuni Paesi europei, Italia in testa? Sicuramente non con un Belpaese che sta affondando. Forse l’unica via è liberare il Sud Italia, dopo oltre 150 anni di catene. Ma di questo parleremo nella prossima puntata di questa rubrica.