Il potere, a dispetto del pensiero andreottiano, ha logorato la mente di Totò Riina. S’era convinto d’essere un moderno Cesare, con veto di vita e di morte verso tutti. La prosopopea d’essere il padrone assoluto di Palermo e dintorni, ha fatto fallire il suo progetto di divenire il “re” assoluto della mafia siciliana e non solo. Ma la megalomania del curtu (basso) di Corleone, è stata alimentata e foraggiata da personaggi delle Istituzioni con un patto del tipo: viviamo tutti insieme felici e mafiosi.
Del resto basta spulciare le condanne per concorso esterno alla mafia, di Dell’Utri, di Totò – vasa vasa – Cuffaro, di Contrada, di Andreotti e tanti altri condannati in via definitiva e di alcuni con processi in itinere ancora da definire, per capire quale è stato il connubio mafia/politica. A tutto questo si devono aggiungere i morti eccellenti, colpevoli di non aver mantenuto i patti di un accordo stipulato per garantire l’esito pro mafiosi, del maxi-processo.
L’inizio della fine dell’impero di Riina fu il 23 aprile 1981, quando decise di uccidere, il giorno del suo quarantaduesimo compleanno “U Falco”, ovvero il principe di Villagrazia, Stefano Bontate. A seguire quello di Totuccio Inzerillo (a dispetto di qualcuno la mia pattuglia fu la prima ad arrivare in via Brunelleschi, luogo dove fu ucciso Inzerillo). I due omicidi segnarono definitivamente una frattura insanabile in seno a Cosa nostra. All’epoca e ancora oggi, in tanti si affannano a dire che ci fu una guerra di mafia. Niente affatto, nessuna guerra attraversò le file di Cosa nostra, ma invero, una “mattanza” tipica delle pulizie etniche di memoria balcanica. In buona sostanza il presunto Re innescò una caccia all’uomo di quanti erano rimasti fedeli a Bontate o comunque non “allineati” ai voleri di Riina. Costoro vennero etichettati con disprezzo “gli scappati”.
Nell’arco temporale che va dal 81/84 nel solo capoluogo siciliano si registrarono oltre mille morti. La cosa davvero triste era che mentre la Carta costituzionale editata nel ’48 abrogava la pena di morte, in Sicilia Totò Riina, ordinava omicidi con frequenza e quantità da far rabbrividire. Ricordo che nell’84, in una stalla di piazza Scaffa a Palermo, vennero trucidate 8 persone.
E lo Stato? Lo Stato era lì, presente e assente, a seconda dei punti di vista. Presente, quando a mo’ di “pupiata”, dopo l’omicidio di Dalla Chiesa, mandò in Sicilia mille agenti: lo definimmo il “secondo sbarco dei mille”. Assente, perché non volle “colpire” con estrema durezza il gotha di Cosa nostra, permettendo la morte violenta di onesti magistrati, poliziotti, carabinieri e politici, lavandosi poi la coscienza con la posa di una corona d’alloro, mentre nel frattempo strizzava l’occhio ai potentati che erano tutta una “cosa” con Cosa nostra.
A me quel che dispiace (e lo dico con onestà) è leggere che un insigne ed esimio giurista come l’esperto di diritto Giovanni Fiandaca, affermi che la trattativa Stato-mafia è da ritenersi “legittima”. Io non so quale mafia abbia conosciuto o frequentato il professor Fiandaca, di certo dovrebbe essere diversa da quella che conobbi io da bambino/ragazzo prima e sbirro poi. Il ragionamento di Fiandaca mi riporta agli anni della giovinezza, quando il solo veder passeggiare sottobraccio uomini d’onore e politici, sintetizzava a furor di popolo un palese e tacito accordo tra loro.
Ritornando a Totò Riina, egli ha voluto strafare, forse inebriato da tutto il potere acquisito: un potere di vita o di morte. E, proprio l’arroganza d’essere il “centro” del mondo, che innescò il suo declino. Era convinto d’essere divenuto l’unica suprema autorità: convinzione che dimostrò con le stragi del ’92 e ’93. E come dargli torto se uno Stato imbelle gli permise anni e anni di latitanza, sino a ricevere un suo “papello”? Il declino dei corleonesi è sotto gli occhi di tutti, ma sopravvivono “menti raffinatissime” che di certo non hanno i “peri incritati”: menti dedite da anni e anni a trattare, ad essere il collante degli indicibili accordi tra Stato e mafia. E del resto, forse ha ragione Fiandaca: la trattativa appare legittima per sopperire alle carenze di uno Stato che non fece nulla per non somigliare ad un Paese sudamericano. E allora ecco, che uomini come il magistrato Nino Di Matteo rappresentano un ostacolo alla continuazione di un “sistema” collaudato da illo tempore. Lo stesso magistrato Paolo Borsellino, s’era messo di traverso e morì per la cocciutaggine di rompere la discontinuità degli “accordi”: la sua Agenda Rossa, che rappresentava il bancomat della verità, fu vigliaccamente rubata.