Tra pochi anni nel mare ci saranno più pezzi di plastica che pesci. A lanciare l’allarme è uno studio della fondazione Ellen MacArthur, secondo il quale, tra 35 anni, la quantità di plastica che galleggia nel mare sarà superiore a quella di pesce. Stando a quanto riferito dai ricercatori, il rapporto tra le tonnellate di plastica presenti negli oceani (ne parlammo oltre un anno fa su Meridionews.it) e il pesce pescato, attualmente, è di uno a cinque, ma sta diminuendo a ritmo frenetico: nel 2025 questo rapporto sarà di uno a tre. In pochi decenni il quantitativo di pesce presente nel mare sarà inferiore rispetto a quello di rifiuti di plastica.
Diverse le cause. A cominciare dall’aumento della plastica che (nonostante i numerosi accordi internazionali) finisce negli oceani e nei mari di tutto il mondo. Secondo uno studio pubblicato sulla rivista Proceedings of the National Academy of Sciences, fino al 90% degli uccelli marini di tutto il mondo presenta residui di plastica nelle viscere. A volte si tratta di frammenti minuscoli, ma che comunque hanno effetti letali sulla fauna marina: e sempre più pesci ingeriscono frammenti di plastica presenti nell’acqua, con conseguenze disastrose per tutta la catena alimentare.
Una catena alimentare di cui l’uomo fa parte in qualità di consumatore. E questo non fa che accelerare la variazione del rapporto tra plastica presente nei mari e pesce pescato. Secondo dati recenti la pesca eccessiva sta uccidendo i mari di tutto il pianeta. A dirlo sono stati Daniel Pauly e Dirk Zeller, dell’università della British Columbia a Vancouver, in Canada, che hanno stimato che, tra il 1950 e il 2010, la quantità di pesce realmente pescato è stata ben maggiore di quella diffusa dalla FAO, per poi diminuire, negli ultimi anni, rapidamente. Il picco sarebbe stato raggiunto nel 1996, con 130 milioni di tonnellate di pesce pescato. Diversa la versione della FAO, che ha parlato di un picco pari a 86 milioni di tonnellate, e per di più stabile fino al 2010, per poi diminuire, ma a ritmi molto più blandi di quelli calcolati dai due ricercatori canadesi. Entrambe le ricerche, però, concordano sul fatto che la quantità di pesce pescato in diminuzione è soprattutto quella relativa alla pesca industriale. E questo nonostante molte attività si siano spostate in aree di pesca in via di sviluppo (dopo aver spremuto all’inverosimile le zone di pesca dei paesi sviluppati e nonostante il ricorso a sistemi di quote in molte aree di pesca).
A causare questa diminuzione, lo sfruttamento eccessivo negli anni Novanta e il numero esagerato di catture nelle aree senza quote, ma troppo pescate. Proprio questa sarebbe la causa della differenza tra i dati diffusi dalla FAO e quelli rilevati dai ricercatori canadesi: i dati ufficiali non terrebbero conto delle catture illegali e degli scarti di produzione (come il pesce catturato e gettato in mare).

Un problema quello della pesca eccessiva che riguarda in generale tutti i mari del mondo, ma che interessa in modo particolare il Mediterraneo. Uno studio condotto dall’Hellenic Centre of Marine Research, e pubblicato su Current Biology, ha dimostrato che negli ultimi vent’anni la situazione degli stock ittici nel Mare Nostrum è andata sempre peggiorando. La crescita demografica, insieme a tecnologie sempre più sofisticate – per individuare i banchi di pesci si usano anche sistemi satellitari – e al sovraffollamento di molte zone di pesca ha causato l’assottigliamento degli stock ittici di nove specie in diverse regioni del Mediterraneo, tra cui naselli, triglie, sogliole, rombi, acciughe e sardine. Un dato confermato da diversi studi e che giustifica l’intervento della Commissione europea, che ha lanciato l’allarme e denunciato che ad essere sfruttate oltre il limite sostenibile sono il 96% delle specie di fondale (sogliole, rombi) e il 71% di quelle che vivono in acque intermedie, come acciughe e sardine.
A lanciare l’allarme sul sovra sfruttamento delle risorse ittiche del Mediterraneo è stata anche Greenpeace. I suoi attivisti già nel 2012 avevano parlato del declino di alcuni stock di interesse commerciale. Greenpeace lanciò l’allarme sullo sfruttamento eccessivo dei piccoli pelagici, pubblicando un rapporto dal titolo “Blue Gold in Italy”. L’anno dopo, nel 2013, Greenpeace denunciò la situazione del settore della pesca in altre zone del Mediterraneo, come lo Stretto di Sicilia, attraverso dati che furono confermati anche dal Comitato Scientifico, Tecnico e Economico della Commissione Europea (STECF).
Dal Tirreno all’Adriatico, passando per lo Stretto di Messina, la pesca eccessiva ha impoverito le risorse del Mediterraneo fino a portare molte specie al di sotto del Rendimento Massimo Sostenibile (RMS/MSY). Per questo l’ultimo rapporto tecnico-scientifico dell’UE parla della necessità di interventi urgenti e determinanti fino all’introduzione di limiti di sbarco come le quote di catture (TAC). Sistemi, però, politicamente difficili da spiegare e soprattutto da imporre (attualmente solo il tonno rosso, nel Mediterraneo, è soggetto a quote di pesca). Specie se si considera che se nel Mediterraneo è ancora possibile incontrare piccoli pescherecci “a conduzione familiare”, negli Oceani a pescare sono ormai vere e proprie macchine da guerra, imbarcazioni enormi dotate di equipaggiamenti sofisticati e reti che possono raggiungere anche 600 metri di lunghezza, in grado di pescare anche 300 tonnellate di pesce al giorno. Mostri dotati di attrezzature per lavorare e congelare il pescato a bordo. Sono questi pescherecci che stanno svuotando i mari e che da anni stanno spingendo il “problema della pesca” oltre il punto di non ritorno. Un punto oltre il quale, nelle reti, i pescatori troveranno più rifiuti e pezzi di plastica che pesci.