Dopo la parte dedicata al Nord e quella al Centro, concludiamo il nostro viaggio culturale e gastronomico fra le regioni d’Italia attraversando ora il Sud. Tra usanze e tradizioni antiche e nuovi modi di festeggiare il periodo natalizio, alla fine di questo tour virtuale, però, non è difficile notare quanto ancora la tradizione abbia la meglio sulla modernità e il consumismo più sfrenato. In questo mese di dicembre ovunque in Italia c’è aria di festa, c’è un’atmosfera unica che si respira solo in questo periodo dell’anno, fatta di rituali tramandati da generazioni e generazioni che, irriducibilmente, sono giunti sino a noi. Potrebbe sembrare che le generazioni moderne abbiano sostituito tutto questo patrimonio con una corsa al consumo e al divertimento che stordisce, e che tradizioni e valori siano ormai sotterrati, dimenticati, quasi rinnegati. In realtà, oggigiorno, sono solo diverse le “forme” con cui si esprimono gli stessi immutati valori dei nostri antenati: la famiglia, gli amici, gli affetti, la voglia di stare insieme e condividere le più squisite specialità culinarie che la nostra bella terra ci regala. In modo più o meno conscio, dunque, non abbiamo dimenticato che i nostri avi e le loro tradizioni sono le nostre radici, le nostre fondamenta, senza le quali noi, persone moderne ed evolute, saremmo nulla.
Molise
L’antico rituale della Faglia di Oratino
Le tradizioni natalizie molisane sono contraddistinte da una cultura rurale di fondo, che ha condizionato fortemente i modi di festeggiare il Natale. Basti pensare alla famosa ‘Ndocciata di Agnone, ove la ‘ndoccia niente altro è che una torcia di abete bianco e ginestre che arriva a misurare fino a 4 metri circa. È un rituale molto antico con una forte carica simbolica: si crea una lunghissima lingua di fuoco, con fiaccole artigianali portate a spalla da volontari, che percorre l’intero paese di Agnone, attirando ovviamente, ogni anno moltissimi curiosi visitatori. Il rituale si ripete ogni 24 dicembre: al rintocco delle campane della chiesa di S. Antonio Abate, i portatori delle fiaccole eseguono questa antichissima usanza, “illuminando” col fuoco delle fiaccole le tenebre delle notte.
Un altro antico rituale, è la Faglia di Oratino, anch’esso di chiare origini contadine e che, in comune con la ‘ndocciata, ha l’idea del fuoco come elemento purificatore dal male, coincidente con la nascita di Gesù. A differenza della ‘ndocciata però, nella quale le fiaccole sono numerose, in occasione della Faglia viene costruito un unico grande cero, fatto di canne secche e alto quasi 13 metri, che viene trasportato a spalla dall’ingresso del paese fino alla Chiesa Madre da circa 40 oratinesi, preceduti e confortati da un gruppetto di musicanti impegnati in una marcetta popolare; una volta davanti alla Chiesa, la faglia veniva issata in posizione verticale, per poterne ammirare la grandezza (quasi pari a quella del campanile) e quindi incendiarla di fronte alla folla con un panno imbevuto di liquido infiammabile. Da quel momento in poi, dopo la benedizione del parroco, la magia del momento, uno scintillante spettacolo. La faglia bruciava così per tutta la notte e il mattino seguente se ne potevano osservare i preziosi resti, che venivano in parte presi e conservati come buon auspicio.
È sicuramente una tradizione molto elaborata, se pensiamo allo sforzo preparativo della Faglia (la ricerca delle canne, la preparazione del cero con una tecnica artigianale che richiedeva giorni e giorni, la stesura del “prodotto finito” a spalla), che richiedeva non solo una notevole forza fisica e l’uso di strumenti particolari (come il partiell), ma anche una grande maestria da parte di chi si cimentava in questa impresa. Si riteneva inoltre, che più grande e lunga fosse la faglia, tanto più abbondante sarebbe stato il raccolto del nuovo anno che stava per arrivare.
Andiamo ora a curiosare cosa si serve sulle tavole molisane, per le feste natalizie. Immancabili sono: le Scarpelle, frittelle da gustare in purezza o impastate con broccoli, cavolfiori o baccalà, e la pizza con i cicoli; la zuppa di cardi, la zuppa di triglie e i cavatelli al ragù di maiale o con le seppie; la trippa con verdure; la Pampanella di costine al forno; il baccalà in forno o arrancato. La pasticceria del Molise, invece, sotto Natale, soddisfa tutti i golosi. I grandi classici locali sono: il Milk Pan, uno zuccotto intriso di crema di liquore molisano Milk e ricoperto di cioccolato bianco fuso; i profumatissimi Calciuni fritti; le ostie di Agnone ripiene di una farcia a base di cacao, frutta secca e miele; le rustiche Cacaruozze.
Basilicata
La suggestiva atmosfera dei Sassi di Matera a Natale
Di origine pagana e propiziatoria, sono frequenti nella regione i “falò” di Natale, che hanno resistito all’avvento del Cristianesimo poiché il simbolismo connesso al fuoco purificatore è stato fatto in qualche modo coincidere con l’avvento della stella cometa, che annuncia la nascita di Cristo. In particolare, a Nemoli e San Fele, la notte di Natale si accendono falò, la cui funzione simbolica sarebbe quella di riscaldare il Bambinetto appena nato e proteggerlo dal gelo e freddo: a San Fele il fuoco dura tutto il giorno di Natale, fino a che lo spegnimento delle fiamme indica il termine della giornata festiva; nella piazza di Nemoli, invece, si accatastano tronchi e legna che formeranno il grosso falò, che verrà acceso la vigilia di Natale e rimarrà attivo fino all’Epifania, il tutto mentre ci si incontra consumando i dolci della tradizione con l’accompagnamento delle musiche pastorali delle zampogne e delle ciaramelle (caratteristici strumenti musicali di questa zona, chiamati gli “oboe dei pastori”). La diffusione dei falò natalizi in questo territorio è anche collegata alla potenza vitale del fuoco, quello che bruciava dentro il caminetto ed era l’elemento centrale attorno a cui le famiglie lucane, povere e ricche, si riunivano durante le giornate invernali.
Non mancano però commemorazioni di altro genere, come per esempio a Matera, dove anche la natura offre il suo contributo natalizio: la scenografia non delude neppure i più esigenti perché i Sassi vengono illuminati nella loro parte più suggestiva (la rupe dell’Idris e le case sottostanti) da una gigantesca cometa luminosa, per ricreare lo splendore di un presepe naturale scavato nel tufo.
Sulle tavole della Basilicata a Natale troveremo di sicuro: minestra di scarole, verze e cardi (cotta in brodo di tacchino e salami con aggiunta di formaggio grattugiato e a pezzettini); il baccalà lesso con peperoni cruschi (seccati al sole e calati per pochi secondi nell’olio d’oliva bollente); gli Strascinari al ragù di carne mista (pasta casereccia chiamata così perché strisciati a forza con le dita). Come dolci, invece, il pane con le mandorle (ossia il Piccilatiedd), i Calzoncelli (panzerotti fritti ripieni di salsa di ceci o castagne lesse) e i dolcetti di Natale alla mandorla.
Puglia
Il presepe nell’anfiteatro romano di Lecce
La tradizione natalizia pugliese è strettamente collegata ai presepi. La diffusione, a livello popolare, del presepe si realizza pienamente nel 1800, quando ogni famiglia in occasione del Natale ha iniziato a costruire un presepe in casa riproducendo la Natività con materiali forniti da un fiorente artigianato. In questo secolo, l’arte presepiale della Puglia si caratterizza specialmente a Lecce, per l’uso innovativo della cartapesta, policroma o trattata a fuoco, drappeggiata su uno scheletro di fil di ferro e stoppa. Ogni anno, poi, nell’anfiteatro romano della città salentina viene realizzato un enorme presepe monumentale in cui viene riprodotto l’ambiente rurale tipico salentino, con alberi di ulivo, muretti a secco, piante tipiche della macchia mediterranea e gli antichi mestieri vengono raffiguranti con statue in gesso e cartapesta.
Il Natale pugliese si vive anche attraverso le fiere e i mercatini, luoghi ideali per acquistare un nuovo “pupo” o la novità dell’anno per il presepe, che varia dalla “pendula” di pomodori, alla cassetta di fichi d’india, sino ad arrivare alle più elaborate rappresentazioni dei mestieri. Pupi ed ambientazioni di vari materiali e varie fattezze dominano la Fiera di Santa Lucia, che si tiene ogni anno nella bella città barocca, in Piazza Santo Oronzo: gli espositori amano mettere in mostra i propri Presepi, alcuni ambientano la Natività in territori tipici salentini, altri rimangono fedeli alla tradizione e altri ancora scelgono di riprodurre fedelmente il Presepe dell’anfiteatro romano.
Ad Oria, in provincia di Brindisi, ogni anno il 25 dicembre alle 18 il presepe anima le strade dell’antica cittadina medievale, una tradizione che risale al periodo di San Francesco: più di cento figuranti ricreano la nascita di Cristo lungo i vicoli e le vie nel quartiere di Monte Paolotti (il ricavato dell’incasso viene devoluto in beneficenza).
E per il menù tradizionale delle feste, pugliese? Un tripudio di cime di rapa stufate, panzerotti ripieni di mozzarella e poi fritti, anguilla arrostita, agnello al forno o servito con spezie e verdure cotte in una particolarissima pentola di terracotta. Per i dolci: le Pettole (una specie di frittelle poi passate nello zucchero); le Cartellate (dolcetti fritti a forma di rosa e serviti con miele); il torrone, la pasta di mandorle e i fichi secchi.
Campania
I mercatini di Natale di San Gregorio Armeno
Qui non manca di certo una spiccata teatralità nel celebrare le feste, a maggior ragione una festività così importante come il Santo Natale. Ovunque è un vero tripudio di presepi, zampognari nei rioni e mercatini natalizi. Protagonista incontrastato e uno dei simboli più intensi della tradizione natalizia a Napoli, il presepe, o’ Presebbio, insieme agli zampognari, alla tombola e al menù della cena della vigilia. Ad di là dei simboli religiosi che esso richiama, il presepe è amato anche dalle famiglie napoletane poco osservanti o dichiaratamente laiche, perché è di fatto il luogo dove sacro e profano, spiritualità e vita terrena, preghiera e ironia, vanno a braccetto, come solo a Napoli, città delle contraddizioni, è possibile.
l termine napoletano o’ Presebbio (così come quello italiano presepe o presepio) deriva dal latino “praesepe” o “praesepium”,che significa “mangiatoia” e all’inizio (è del 1025 il primo riferimento documentato di un presepe a Napoli), il presepe napoletano, così come in tutte le altre regioni cristiane dove esisteva la tradizione del presepe, raffigurava appunto la scena classica della Natività, con il bambino nella mangiatoia, la Madonna e San Giuseppe, il bue e l’asinello.ÔÇ¿Soltanto nel Seicento il presepe napoletano si amplia, cominciando a introdurre scene di vita quotidiana, come i venditori di frutta o di carne, le popolane, i pastori con le pecore e altre statuine. La novità è accolta favorevolmente e gli artigiani rendono tali scene sempre più dettagliate e particolareggiate, raggiungendo l’apice rappresentativa nel Settecento, il secolo d’oro del presepe napoletano. Esempi di presepi settecenteschi, ve ne sono moltissimi, alcuni ancora perfettamente conservati; ovviamente, più la famiglia era agiata e benestante, maggiore erano lo sfarzo, la cura e la ricercatezza nell’allestimento del presepe del casato.
La costruzione del presepe napoletano inizia, ancora oggi, tradizionalmente l’otto dicembre: dal ripostiglio si tira fuori la “base” dell’anno precedente (uno scheletro di sughero e cartone poggiato su una tavola di legno, senza pastori e addobbi vari) e si inizia ad allestirlo in modo quasi maniacale, giungendo spesso a creare piccoli capolavori di artigianato casalingo. Non mancherà poi, di certo, una passeggiata a San Gregorio Armeno, la via dei presepi napoletani e delle statuine dei pastori, tappa obbligata per tutti i napoletani: qua si possono trovare decine di negozi e di coloratissime bancarelle dove gli artigiani del presepe espongono le loro creazioni. L’offerta e la varietà dei prodotti è così vasta che è impossibile uscirne senza aver trovato quanto cercato e magari qualche statuina in più del previsto. Qualunque oggetto può arricchire la coreografica scenografia del presepe-palcoscenico. La realizzazione del presepe può durare da alcuni giorni fino a tutto il periodo pre-natalizio, ma è d’obbligo che la sera del 24 tutto debba essere pronto e impeccabile, così come ammoniva Luca Cupiello in Natale in casa Cupiello, il protagonista dell’indimenticabile opera teatrale di Eduardo De Filippo. Il presepe napoletano non è solo artigianato e tradizione popolare, ma ha conosciuto e conosce tuttora forme di elevata espressione artistica, come il famoso presepe Cuciniello e gli altri presepi settecenteschi del Museo di San Martino o la magnifica e poco conosciuta collezione tedesca di presepi napoletani del “Bayerischen National Museum” di Monaco di Baviera.
Ma quali sono le i piatti tipici natalizi campani e le leccornie sulle tavole imbandite a festa? Si parte con i piatti tipici, come la minestra maritata di cicoria, scarole e “borraccia” (erba amara e pelosa) in brodo di cappone con aggiunta facoltativa di uova sbattute con peperoncino e carne di vitello, gli spaghetti alle vongole, totano e patate, cappone imbottito, insalata di “rinforzo” (cavolfiore, sottaceti misti, peperoncini, olive di Gaeta, acciughe salate) accompagnata dalle immancabili “friselle” (crostini di pane dalla forma circolare) e dai broccoli con aglio e peperoncino. Tra i dolci, quelli più legati alla tradizione, i Roccocò (dolcetti con forma tondeggiante, fatti con mandorle, farina, zucchero, canditi e spezie varie), i Susamielli (a base di farina, zucchero, canditi e miele), il Divino amore (ovetti alle mandorle, ricoperti di marmellata e ghiaccia rosata), le zeppole e gli struffoli (le nonne campane sostengono che quando si preparano gli struffoli non bisogna né farsi vedere né far sentire l’odore alla gente invidiosa, perché finirebbero con lo scoppiare. Della serie: “Meglio murì sazio che campà djuno”).
Calabria
I cullurielli calabri
Anche in Calabria, i festeggiamenti del Natale restano inevitabilmente legati alla tradizione. Tutto inevitabilmente in famiglia, dal cenone del 24 dicembre allo scambio dei regali, per non tradire il vecchio detto “Natale con i tuoi, Pasqua con chi vuoi”. Nel Catanzarese, a tavola non devono mancare 13 pietanze, forse in riferimento ai 13 apostoli; a Cassano, invece, le pietanze sono 9, quanto i mesi d’attesa di una gravidanza. Fervidi i preparativi con il supporto anche dei vicini perché avere meno piatti in tavola non è di buon auspicio.
Si usa ancora fare il pane di Natale, u Natalisi. Si diceva che addirittura i morti si scomodassero per fare il pane perché “a Pasqua e a Natali si susinu i morti a far u pani”, nella convinzione che i defunti possano partecipare alle feste della famiglia e gioirne. La sera della vigilia, la tavola si lascia addirittura apparecchiata con le pietanze ancora nei piatti, in attesa che u bomminiallu (il Bambino Gesù) venga a mangiare. Per le vie si possono trovare anche gli zampognari che suonano davanti ai presepi pregustando il vino e le fritture che ogni padrone di casa offre loro come ricompensa.
Una menzione a parte spetta al famoso “fritto” calabrese. Le fritture, durante il periodo natalizio, hanno un marcato carattere ben augurale. La padrona di casa immerge in una padella colma d’olio bollente piccoli pezzi di pasta lievitata, impastati, tirati e arrotolati con perizia. A un lato del focolare siede lu capu ‘e da casa (il capofamiglia), che regge il manico della padella e vi getta dentro il primo pezzo di pasta, il cullurìellu, cui di solito si dà la forma di un pupazzetto simboleggiante Gesù Bambino; dal risultato che se ne ottiene si trae presagio circa l’andamento fortunoso o meno della famiglia nel corso del nuovo anno.
Nel periodo tradizionalmente compreso fra Santo Stefano e l’Epifania non è insolito sentire per le strade dei paesi la “strina” composta da versi in rima di rara bellezza in tipico dialetto, con l’accompagnamento musicale della chitarra, della fisarmonica e dei tamburelli. Una delle tradizioni del periodo natalizio più vive e sentite della provincia di Cosenza: brigate di compagni vanno in giro per le contrade e per le vie del paese, fermandosi davanti alle abitazioni degli amici o dei conoscenti per augurare buona salute, felicità e ricchezze per tutta la famiglia; i padroni di casa, in segno di ringraziamento, offrono vino e “cose bone”.
Ancora in voga in Calabria è il Fuoco di Natale, un enorme falò che si accende nelle piazze la notte del 24 e viene alimentato per tutta la notte dalla legna che i giovani hanno accumulato da giorni, per bruciare tutto ciò che di negativo c’è stato nel vecchio anno: i paesani dopo la messa di mezzanotte si riuniscono attorno alla “focara” cantando accompagnati dall’organetto e dalla fisarmonica, mangiando e bevendo.
Il menù tipico festaiolo calabrese prevede: Minestra in brodo di cappone; Pasta china (lasagne o grossi maccheroni rigati al forno farciti con polpettine di vitello, salame piccante, provola dolce, caciocavallo e pecorino); Stoccafisso con la ‘ghiotta (sughetto di olio, cipolla, pomodori, olive, capperi e uvetta); Capretto e Vrùocculi nìvuri ammullicàti (broccoli conditi con pepe nero, alloro, aglio e pan grattato). Come dolci: i Quazunìelli (calzoncini ripieni di uva passa, noci, mosto cotto e cannella), e, lo abbiamo detto, i Cullurielli (che si possono gustare al naturale, con l’aggiunta di zucchero, o farciti con salumi e formaggi).
Sicilia
Un ciaramiddaro siciliano
Il Natale in Sicilia, oltre a conservare i tratti delle feste religiose (celebrazioni nelle chiese, novene notturne, allestimento dei tradizionali presepi), esprime la sua vitalità di “festa del fuoco”, soprattutto nei centri montani, dove, nella notte del 24, “luminari e zucchi” (cioè i tradizionali falò) vengono accesi quasi a riscaldare il Bambin Gesù. Una tradizione antichissima, legata al culto della dea Terra, con la quale si propiziava il raccolto e la fecondità della terra. In alcune zone l’usanza è accompagnata dai suoni e dai canti degli zampognari, che attendono la messa notturna insieme a chi, curioso o devoto, si è operato per costruire la grande catasta di legna da ardere.ÔÇ¿ Abbondanti libagioni sono consumate durante la veglia fino all’alba, mentre gruppi di giovani organizzano grandi grigliate di carne con le stesse braci dei falò.
Nella provincia di Caltanissetta, sono diverse le zone dove vengono allestiti presepi di varie dimensioni o viventi. Gli amanti delle “figuredde” (statuine) si adoperano per rispolverare le antiche produzioni artigianali che rappresentano il lavoro della cultura agro-pastorale siciliana.
Nella provincia di Palermo, sulle Madonie, si continuano ad accendere luminarie la sera della vigilia di Natale, una tradizione osservata anche a Isnello e a Collesano. In passato il crepitio dei falò era accompagnato dalle note delle “ciaramedde” (strumenti a fiato) che venivano suonate dai cosiddetti “ciaramiddari” (zampognari, in siciliano). Si era soliti allora addobbare l’altarino con alloro, agrumi e fiori, illuminandolo con le fiammelle di nove candele.ÔÇ¿Secondo quanto riporta lo studioso del folclore locale Pitrè in Spettacoli e feste, la tradizione delle novene natalizie celebrava i nove giorni che precedevano quello della nascita di Gesù; le “ninnaredde” venivano intonate dai cantastorie girovagando per le case dei paesi, fin dal 1867.
Il cambiamento naturale che le tradizioni hanno conosciuto nel tempo, poi, ha fatto sì che alcuni usi si siano persi, ma non quello di allestire il presepe. Caltagirone, per esempio, è rinomata per i suoi presepi in ceramica, che nel 1700 la resero celebre. Tra i più famosi in Sicilia c’è anche quello di Custonaci, in provincia di Trapani: 77 quadri animati da 200 persone e 400 animali, che riproducono le antiche attività pastorali, agricole e domestiche; i vestiti dei figuranti sono gli stessi usati da Luchino Visconti nel Gattopardo e gli attrezzi, dall’aratro al torchio per l’uva, autentici e d’epoca. A Palermo, invece, quest’anno, all’interno della Cappella Palatina, sarà possibile ammirare fino all’8 gennaio il presepe in vetro realizzato dall’artista siciliano Madè, un raro esempio al mondo di sculture di grandi dimensioni realizzate in pasta di vetro: 18 pezzi con un peso compreso tra i 25 e i 40 chili, che grazie all’uso di materiali preziosi mescolati nel vetro generano un effetto scenico particolare, esaltato dalla luce aurea della Cappella Palatina. Un presepe recitato in versi tutto in dialetto, è quello proposto a Gioiosa Marea, piccolo borgo marinaro in provincia di Messina: i figuranti non faranno scena muta, ma canteranno nenie natalizie in dialetto e reciteranno scene di vita quotidiana trasformando la rappresentazione della Natività in uno spettacolo teatrale all’aperto. Degno di particolare menzione è l’albero di Natale di Cinisi, in provincia di Palermo: non il solito abete addobbato a festa, ma un albero di 10 metri circa realizzato con una grande struttura di ferro, sui cui sono state disposte oltre 2.000 pale di fichi d’india e frutti di cartapesta; una rievocazione in grande stile dei colori e dei profumi della terra di Sicilia.
Per il menù tradizionale natalizio in Sicilia si prediligono: i cannelloni al forno; le lasagne “cacate” (nessun turpiloquio, sono lasagne classiche fatte con ragù di carne); il pasticcio di Natale (altro piatto tradizionale, considerato spesso un “piatto unico” per la ricchezza degli ingredienti con cui è fatto); “u cudduruni di spinaci o di brocculi” (focaccia di spinaci o di broccoli); zuppa di baccalà con lenticchie e cime di rapa.
Come dolci tipici natalizi (ma la pasticceria tradizionale siciliana vanta numerosissime varietà di dolci e leccornie tipiche): il “buccellato”, o “cucciddato” siciliano (un dolce ripieno di fichi secchi, uva sultanina, miele, cioccolato e scorzette di arance); il torrone; la “mustazzola”, o “mostaccioli” (biscotti tipici della zona di Ragusa, fatti con vino cotto o con miele); i dolcetti ai fichi.
Sardegna
I “Papassini” sardi
In Sardegna il Natale simboleggia da sempre l’unione familiare, la fratellanza, l’amicizia e la coesione tipica di questa regione. Nella tradizione sarda, infatti, è da millenni un evento speciale da festeggiare in famiglia, un momento di ricongiungimento che vedeva i capofamiglia rientrare a casa dalla transumanza invernale, per trascorrere la festa insieme ai loro cari. Il Natale, dunque, è sempre stato un momento tanto atteso da tutti: dai pastori, che assaporavano mentalmente il ritorno a casa, lasciando anche se per poco tempo i freddi ricoveri di montagna; dalle mogli, finalmente non più sole nell’accudire i figli e nelle faccende di casa; e dai figli, felici per il rientro del padre spesso lontano. Secondo le consuetudini, il momento che sanciva la ricomposizione di ciascun nucleo familiare e la ripresa dei contatti con gli amici era proprio la notte della Vigilia di Natale, definita dalla tradizione sarda “Sa nott’è xena”, la notte calda, non solo per il tepore del camino, ma soprattutto per il calore dello stare insieme, uniti, che faceva della Vigilia un momento magico e unico.
Nelle case, l’attesa di un evento così importante era vissuta con grande fermento. Una delle consuetudini era quella di imbiancare le parti del camino annerite dal fuoco, per poi posizionare all’interno un grosso ceppo di legno, appositamente tagliato e conservato per l’occasione e denominato “su truncu de xena o cotzi(n)a de xena”, che doveva restare acceso per tutto il periodo festivo. È proprio accanto al piacevole tepore emanato da quel fuoco speciale che l’intero gruppo familiare consumava in allegria un’abbondante e saporita cena, a base di porcetto, agnello o capretto arrosto, frattaglie, oltre a formaggio e salsicce secche.
La solidarietà nella civiltà contadina non mancava mai. Nei giorni precedenti eventi così importanti, era d’uso, da parte delle famiglie abbienti, inviare alle famiglie più povere (dove magari il capo famiglia aveva lavorato al suo servizio) pane, carne, formaggio e dolci, in modo che tutti potessero festeggiare il Natale con un pasto più ricco e abbondante del normale.
Nelle famiglie riunite per le festività, i più felici in assoluto erano i bambini, soprattutto per l’abbondanza e la varietà del cibo messo in tavola, ben diverso da quello degli altri giorni dell’anno. Riuniti tutti intorno al camino, erano gli anziani i protagonisti dei racconti e delle favole che tanto incantavano i bambini. Intorno al grande tavolo di cucina si passava poi il tempo, in attesa della messa di mezzanotte, con i giochi di società, quali ad esempio “su barrallicu” (una specie di trottola) o la classica “sa tombula” (la tombola, con vincite in natura che prevedevano fichi secchi, mandorle, giocattoli artigianali); i più grandi invece giocavano a scopa o sette e mezzo. Ai rintocchi delle campane che annunciavano la messa di mezzanotte, denominata in sardo “sa Miss’è Puddu” (ovvero la “messa del primo canto del gallo”), tutti questi passatempi venivano interrotti. La messa era molto partecipata e rappresentava un’occasione per ritrovarsi con gli amici, i conoscenti o altri parenti non presenti al cenone di famiglia. Per le donne in attesa di un figlio, poi, era un momento speciale per compiere alcune pratiche magico-religiose che si diceva tutelassero la nascita del bambino (era diffusa la convinzione che se le donne gravide non avessero ascoltato la messa di mezzanotte, il nascituro sarebbe venuto alla luce deforme). E se un bambino nasceva proprio la notte di Natale, avrebbe avuto il dono di non perdere denti e capelli durante la vita e di godere di un corpo intatto anche dopo la morte.
In Sardegna, tra i piatti tipici della tradizione natalizia ci sono: i “culurgiones de casu” (particolarissimi ravioli ripieni di spinaci o bietole); gli gnocchetti sardi al sugo di salsiccia; l’agnello con le classiche patate al forno; il “porceddu” (maiale) al mirto. Tra i dolci, invece: i “papassini” (dolcetti a forma di rombo ripieni di glassa e frutta secca); le “seadas” (sfoglie di semola ripiene di formaggio e ricoperte di miele); il “pane di sapa”, (un pane antichissimo ottenuto impastando farina di grano con mosto di uva nera).