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December 4, 2015
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L’Italia come metafora: ovvero la Palma della legalità va al Nord. Il caso di “Libera”

Fabio CammalleribyFabio Cammalleri
Don Luigi Ciotti

Don Luigi Ciotti

Time: 4 mins read

L’Associazione Libera non ha sede in Sicilia, ma ha interessi in Sicilia. Il processo Mafia Capitale reca questo nome, ma si svolge e si occupa di fatti avvenuti a Roma. Chi dirige la Procura capitolina è stato magistrato nella Procura di Palermo, con funzioni antimafia. Un dirigente della predetta Associazione Libera, Franco La Torre, vive a Roma, ma è nato a Palermo dove visse e fu ucciso suo padre, Pio. Come si mette insieme tutto questo? Con l’allontanamento, pare via SMS, del Prof. La Torre da Libera. Nell’ultima assemblea associativa aveva accusato la dirigenza, in primo luogo Don Luigi Ciotti, di parzialità o di omissioni o di entrambe: “Ci siamo fatti sentire a L'Aquila nel post terremoto e in Lombardia, ma non a Palermo per le Misure di prevenzione e a Roma per Mafia Capitale. Il nostro compito si è affievolito”. 

Qualche mese fa, si era dimesso il Direttore di Libera, Franco Fontana: nell’amaro commento di Don Ciotti, nonostante fosse un galantuomo, perchè nei rapporti avuti con persone poi accusate nel noto processo Mafia Capitale, il direttore avrebbe ignorato, in buona fede, le qualità presuntivamente criminali degli allora indagati. Per chi scrive è senz’altro così, ci mancherebbe. 

Ma, come si dice, il punto è un altro. Il punto è che Palermo e Roma, Torino e Roma, l’Italia tutta, dalle Alpi a Lampedusa (e non è riferimento di mera completezza geografica, dato che anche l’accoglienza agli immigrati è oggetto di contestazione penale) sono finite “insieme nella legalità”; e nella sordità, anche; perché La Torre aggiunge: “si sturino le orecchie”, a proposito del fatto che a Palermo, sulle misure di prevenzione antimafia, a quanto pare tutti sapevano, ma nessuno a Libera sentiva.

Allora il punto è di ordine culturale. 

Per tentare di chiarire meglio, facciamo un passo indietro. Nelle ore in cui maturavano le accidentate dimissioni del Sindaco di Roma, l’Assessore alla Legalità capitolina, Alfonso Sabella, anch’egli noto magistrato antimafia (in aspettativa) certificava che, rispetto al tentativo di “sistemare la macchina amministrativa di Roma”, la cattura di Giovanni Brusca e Leoluca Bagarella era risultata “una passeggiata di salute”. Il paragone poteva risultare non semplicemente una lepidezza di fine mandato, o un controcanto non riuscito all’epilogo maldestramente ondivago dell’ex sindaco romano. E svelare, o tradire, proprio il segnalato problema culturale  (ma può mai essere, la cultura, un problema?)

Chiamiamo questo problema “eccesso di diritto”. 

“Il diritto è indispensabile per la vita della società, ma rifugiarsi totalmente nel diritto è la morte per le relazioni umane: se ne negherebbe il calore, l’agile prontezza, la fluttuazione, indispensabili perchè una società possa vivere, e non semplicemente funzionare.” Così un teologo non di complemento, Jacques Ellul, esprimeva mirabilmente l’idea di “eccesso di diritto”.

Ci si potrebbe chiedere se il Dott. Sabella intendesse proprio criticare il diritto in quanto tale, e non invece le sue violazioni; e queste giustificassero quel singolare paragone. Ma sia le parole usate, “la gestione”, che il richiamo al diritto-macchina, senz’altro si riferivano al diritto inviolato; e tuttavia tale, nonostante la sua integrità, da poter concorrere con due esponenti “di spicco” di Cosa Nostra: ed  anzi offuscandone la perniciosissima malignità antiumana e antisociale (per Brusca, sia pure fra qualche tentennamento, poi revocata ora per allora). 

Qui il Retore della Legalità, vale a dire proprio di ciò che si era appena presentato in quegli infausti termini, potrebbe osservare che non di Bagarella e Brusca in quanto tali aveva parlato l’Assessore alla Legalità, ma della loro cattura. E, volendo sopire, amplificherebbe. Perché, se di due “aggiustamenti”, uno è stato tanto più impegnativo e significativo dell’altro, ne viene che il diritto può risultare assai più antisociale del crimine. 

E’ nota la lungimirante valutazione di Sciascia (si direbbe una profezia, se l’uso della parola non fosse così prontamente equivocabile) sull’avanzamento della “Linea della Palma”. Sciascia fu primo a scoprire la Mafia: nel senso di toglierle, a beneficio di moltitudini e non di isolati ricercatori, le coperture che un inveterato costume e un interessato cascame geopolitico assiduamente le assicuravano (“Il giorno della civetta” precede di due anni l’istituzione della prima Commissione Parlamentare); e fu anche il primo a scoprire l’Antimafia. 

Sicchè la sua “Linea della Palma”, e il suo avanzamento, senza forzature possono certo riferirsi alla seconda, non meno che alla prima. Vale a dire: la retorica della legalità, non intesa come inerzia verbalistica, ma come potente strumento politico e di dominio, è così assimilata nella via pubblica e nel discorso che l’accompagna, da essere giunta a rarefarsi in etichetta burocratica, come l’annona e la ragioneria generale.  

Una molto famosa associazione culturale antimafia, un network diffuso in tutta Italia, ma con  anima a Torino, è scossa da accuse interne mosse da chi ha memoria siciliana, per carenze consumate a Roma e a Palermo.

Il Presidente del Senato è stato designato prima, e votato poi, in ragione di meriti antimafia; il Presidente della Repubblica in carica evoca, con il suo solo cognome, un coacervo di stratificazioni, che, da una generazione all’altra, hanno attraversato i due fenomeni opposti. 

Perciò, posto che il problema sia culturale, mi chiedo, sulla scorta (sempre minoritaria, scomoda, scandalosa, eretica, dunque giusta) della dirittura civile sciasciana: fino a che punto, oggi, si può scrivere o parlare del male commesso dal crimine, senza parlare di quello commesso dal diritto? Di Roma, senza Palermo? Dell’Antimafia di Sicilia e non dell’Antimafia d’Italia? Dei singoli magistrati, senza tutti i magistrati? Del locale, senza il nazionale? Di questo nazionale, senza questo locale?  Di un certo presente, senza un certo passato?    

 


Lunedì 7 dicembre, presso lo storico Nitehawk Cinema di Brooklyn, avrà luogo l’anteprima mondiale di Sono Cosa Nostra, documentario di Simone Aleandri, organizzato da RAI Cinema, che celebra i 20 anni della legge sulla confisca dei Beni alle Mafie. Grazie alla partecipazione dell’Associazione “Libera” e di don Ciotti, il film percorre idealmente il territorio nazionale per incontrare i protagonisti e le associazioni territoriali laiche e cattoliche, che negli anni hanno reso possibile il recupero attivo e sociale dei beni confiscati alle mafie

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Fabio Cammalleri

Fabio Cammalleri

Il potere di giudicare e condannare una persona è, semplicemente, il potere. Niente può eguagliare la forza ambigua di un uomo che chiude in galera un altro uomo. E niente come questa forza tende ad esorbitare. Così, il potere sulla pena, nata parte di un tutto, si fa tutto. Per tutti. Da avvocato, negli anni, temo di aver capito che, per fronteggiare un simile disordine, in Italia non basti più la buona volontà: i penalisti, i garantisti, cioè, una parte. Forse bisognerebbe spogliarsi di ogni parzialità, rendendosi semplicemente uomini. Memore del fatto che Gesù e Socrate, imputati e giudicati rei, si compirono senza scrivere una riga, mi rivolgo alla pagina con cautela. Con me c’è Silvia e, con noi, Francesco e Armida, i nostri gemelli.

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