Quando nel 1817 il tedesco Karl Drais creò la sua prima “macchina da corsa”, un velocipede in legno su due ruote, che si spingeva in avanti facendo pressione sui piedi, probabilmente non immaginava l’importanza della sua invenzione che nel corso del diciannovesimo secolo si sarebbe sviluppata gradualmente in tutta Europa.
In Italia, nel secondo dopo guerra, quando la crisi economica investe il Paese, la bicicletta diventa il principale mezzo di trasporto soprattutto per le classi sociali meno abbienti. Il pensiero corre immediatamente all’indimenticabile capolavoro di Vittorio De Sica, “Ladri di biciclette”, che ha immortalato, pur nella povertà e nella disperazione dei personaggi, la poesia di un’epoca.
Protagonista assoluta della scena è la bicicletta, oggetto di desiderio e di speranza, strumento indispensabile per garantire la sopravvivenza.
Quando Antonio Ricci, un disoccupato assunto come attacchino comunale, subisce il furto della sua bicicletta, spinto dall’angoscia di perdere il lavoro, si improvvisa ladro e ruba a sua volta, maldestramente, una bicicletta, viene immediatamente scoperto con il rischio di essere arrestato. Lo salva il pianto inconsolabile del figlio.
Sullo sfondo una Roma ancora ferita dalla guerra, le immagini suggestive in bianco e nero di grandi strade deserte, libere da automobili e mezzi, piazze monumentali, vie poco urbanizzate dove si respira l’atmosfera di una dimensione aperta, naturale e semplice.
Anche a Palermo sono state rubate le biciclette. Ma i ladri non sono stati ancora arrestati. In città, fino all’immediato dopoguerra l’utilizzo del velocipede ha avuto i suoi momenti di gloria, durati tuttavia ben poco, a dispetto delle favorevoli caratteristiche del territorio pianeggiante. Presto alle ampie strade, alle larghe piazze, ai filari di alberi secolari, all’armoniosa distribuzione delle eleganti palazzine liberty adagiate nella Conca d’oro, che rendevano Palermo una delle capitali più belle e godibili è subentrata una cementificazione selvaggia, un’urbanizzazione irregolare ed invasiva ed una trasformazione radicale del tessuto edilizio.
Calpestato il concetto di spazio, l’espansione urbana è stata calibrata in relazione alla necessità della massima speculazione edilizia che ha dato vita ad una fitta ed intricata rete di costruzioni, una cortina ininterrotta di edifici anonimi enormi ed antiestetici, case su case ed interi quartieri dormitorio privi di verde, di spazi collettivi e di servizi.
Un sistema comunque incompatibile con la realizzazione di piste ciclabili e percorsi pedonali, che certamente avrebbero contenuto il grave fenomeno dell’inquinamento atmosferico riducendo anche l'intenso traffico veicolare per il quale Palermo è tra le prime città nel mondo.
Con un ritardo di quasi mezzo secolo rispetto alle altre metropoli, solo a partire dal 2006 l’amministrazione comunale ha tentato di porre rimedio alla mancanza di piste ciclabili che sostanzialmente erano state dimenticate fino ad allora nella programmazione del territorio; invero erano già disciplinate dal Codice della strada del 1992 ed oggetto di successive direttive e di corposi finanziamenti europei rivolti al recupero della salubrità dei luoghi, disincentivando l’uso delle automobili.
Senonché dei tre progetti ipotizzati – un percorso costiero (da Via Messina Marine a Mondello), un percorso mare-monte ed un terzo denominato green way (di attraversamento della città e fino a Boccadifalco sull’ex tracciato ferroviario cittadino) – solo due, per circa 15 km, hanno visto la luce, con un investimento di soli 3 milioni di euro (mentre il programma triennale delle opere pubbliche normalmente ha il valore di oltre 3 miliardi di euro) in parte finanziati dall’Unione europea.
A ciò si aggiunga che la realizzazione delle piste ciclabili ha dovuto fare i conti con le caratteristiche dei luoghi e delle modalità di edificazione che ha caratterizzato l’espansione cittadina; interruzioni improvvise, strettoie, marciapiedi dissestati, parcheggi abusivi di ciclomotori ed autovetture, segnaletica verticale, attraversamenti stradali, paletti vari, pensiline di autobus, aiuole, edicole, bancarelle tabelloni pubblicitari, cordoli, dissuasori e perfino un impianto di carburante, le rendono poco invitanti e praticabili.
Certo, i nuovi strumenti di programmazione della mobilità (Piano Generale del traffico Urbano adottato nel 2013) e gli atti di indirizzo in materia di sviluppo sostenibile (Piano ambientale energia sostenibile) sono sicuramente più attenti e sensibili all’argomento ed ipotizzano la creazione di nuovi percorsi per circa 100 km da realizzarsi entro il 2015, quale strumento di contrasto all’uso delle automobili. Tuttavia, nel frattempo, secondo studi aggiornati al 2013, Palermo si colloca, per qualità della vita, al 97° posto su 104 capoluoghi e tra gli indicatori negativi, oltre alla mancanza di verde, spicca la carenza di percorsi per i velocipedi:L attualmente il dato sconfortante è di 0,62 metri per abitante su una scala da 0/100 mt.
Le ricadute negative sulla salute sono considerevoli se a Palermo si registra, tra l’altro, un aumento esponenziale di alcune malattie legate all’inquinamento ambientale, tra le quali quelle respiratorie che colpiscono spesso i più giovani. Invero è necessaria una politica più energica e coraggiosa, che sappia affrontare in modo organico le questioni ambientali, che voglia progettare finalmente interventi di decostruzione e valutare la possibilità delle demolizioni, che valorizzando i parametri culturali sappia eliminare il brutto ed il superfluo, creando nuove aree di verde e veri parchi da restituire ai cittadini e, soprattutto, alle nuove generazioni altrimenti costrette in luoghi asfittici ed inquinati, defraudati dei loro diritti.
Restituiamo quindi ai cittadini la bicicletta, affinché, pedalando, possano costruire il loro futuro ripartendo da valori semplici, essenziali e da un rinnovato rapporto con la terra e con la bellezza.