Un inizio di partita raggelante. Teso, contratto, falloso, preoccupato: Sinner, o meglio la sua controfigura, è stato messo subito sotto dall’americano Mackenzie McDonald, padrone del gioco nel primo turno degli US Open. Il pubblico sulle tribune del campo centrale taceva incredulo, oppresso dall’afa irreale in un pomeriggio newyorkese gonfio di umidità: nessuno si aspettava che il numero uno del mondo arrancasse indifeso, senza trovare una contromossa.
L’attesa era grande. Jannik si presentava sull’Arthur Ashe — lo stadio più grande che c’è, capace di contenere 24mila spettatori — sulla scia delle polemiche seguite all’affare Clostebol, la sostanza proibita trovata in quantità impalpabile nel suo corpo. Un picogrammo di anabolizzante è diventato uno psicogrammo nel rimbalzo feroce tra colpevolisti e innocentisti, malgrado le 33 pagine della sentenza dell’International tennis integrity agency abbiano scagionato l’imputato dall’accusa di doping. Né colpa né dolo, sostengono i luminari, eppure l’opinione pubblica non è ancora convinta. Il match era importante anche e soprattutto per questo: capire come la gente avrebbe accolto il ragazzo meraviglia, sballottato in una tempesta mediatica priva di senso e grondante livore.
Credere o no all’innocenza è spesso questione di sfumature. Il completo cucito da Nike per Sinner pareva lo specchio di uno stato d’animo: grigio chiaro la maglietta, grigio scuro i pantaloncini, grigio antracite le bande laterali. L’incontro è cominciato subito in salita. Palle break a ripetizione concesse all’avversario già nel game iniziale sono state il preludio a un’ora abbondante di sofferenza. Jannik ha perso il servizio tre volte, mentre il rivale — un californiano di 29 anni, numero 72 del ranking — dilagava con apparente facilità. Intendiamoci, McDonald non è il Real Madrid, ma è comunque un passista rognoso: è rapido, intelligente, capace di variare il ritmo della partita. Si nutre della fiducia nelle proprie geometrie. Certo, gli manca il punch, e l’italiano l’aveva sempre battuto nei precedenti. Uno più importante degli altri: la vittoria in finale a Washington nel 2021 è stato il primo titolo in un torneo 500, l’ingresso nei quartieri alti. Però davanti a un Sinner a mezzo servizio, con la testa comprensibilmente altrove, il discorso cambia: può diventare pericolosissimo.
Così agli errori sono seguiti altri errori, in una catena che pareva inarrestabile. Inutili gli sguardi rivolti al box, dove accanto ai coach Vagnozzi e Cahill spiccavano due seggiolini vuoti: quelli del preparatore atletico Umberto Ferrara e del fisioterapista Giacomo Naldi. Personaggi fondamentali nella crescita fisica del fuoriclasse, ma scivolati nell’errore che gli è costata l’inchiesta per doping. “C’era bisogno di cambiare aria”, aveva spiegato lui sinceramente addolorato tre giorni fa, annunciando l’inevitabile doppio licenziamento. E’ in fondo la solitudine dei numeri uno, anche quando c’è un intero stadio a vederti. E tocca a te tirarti fuori dai guai. Incassato un pesante 6-2, Jan ha cominciato malissimo anche il secondo set, cedendo di nuovo il servizio. Neppure l’atteggiamento lasciava presagire buone notizie: poca energia, scarsa reattività, un sorriso amaro a sottolineare il gioco smarrito. Non restava che consultare i sacri testi, per cercare l’ultima volta in cui la testa di serie numero uno a Flushing Meadows era uscita all’esordio nel torneo. La risposta è: 1990, il magnifico svedese Edberg battuto in tre set dal semisconosciuto russo Volkov. Come allora, il fantasma dell’imminente disfatta si stava materializzando sul center court.
Senonché. Senonché proprio McDonald, fino a lì impeccabile, ha dato una cortese mano al nostro giovanotto. Improvvisamente il suo dritto è diventato l’ospite d’onore in tivù di Chi l’ha visto?, mentre il numero uno del tabellone pian piano si è ricordato di essere tale. Non si è campioni per caso. Accettando i graziosi regali dell’americano, Sinner gli ha strappato il servizio pareggiando il conto, pronto a entrare immediatamente in corsia di sorpasso. Ed è volato via: fine dei patemi. La partita non è più esistita da quel momento in avanti, rivoltata come un calzino per l’esultanza dei tifosi-carota, confortante macchia arancione sugli spalti. Secondo il principio dei vasi comunicanti, Jannik ha acceso la luce e lo statunitense s’è ritrovato al buio in rottura prolungata. Liquidato senza capire come e perché: 6-2, 6-1, 6-2 lo score, dopo l’illusione del set iniziale.
“Sono riuscito a trovare il mio ritmo superando l’avvio complicato, ho alzato il livello”, ha spiegato dopo le strette di mano il vincitore ai microfoni. “Ora cercherò di migliorare giorno per giorno, c’è molto lavoro da fare su tutti i colpi. E mentalmente, perché la gestione dei momenti difficili è la chiave di ogni incontro”. Il prossimo ostacolo è la speranza americana Alex Michelsen, vent’anni appena compiuti, che l’ha impegnato duramente giusto dieci giorni fa a Cincinnati. Servirà il vero Sinner. Per citare Eduardo: ‘a nuttata nunn’è ancora passata.