Chissà quanto gli sarà costato. Accettare un verdetto ingiusto, anzi concordarlo pur sapendo di non aver fatto nulla di sbagliato: non dev’essere stato facile per Sinner. E’ un macigno da ingoiare di grandezza pari al meteorite che lo minacciava. Ha prevalso evidentemente la possibilità di mettere la parola fine su un tormento cominciato a marzo del 2024, rispetto al rischio di una condanna pesante quanto assurda: da dodici a ventiquattro mesi lontano dal tennis, la fine di ogni certezza. “Questo caso incombeva su di me ormai da quasi un anno e il processo era ancora in corso, si sarebbe arrivati a una conclusione forse solo a fine anno”, sono state le sue parole messe nero su bianco nel comunicato ufficiale. Una constatazione amichevole, come quelle che si firmano in due sul modulo dell’assicurazione dopo un incidente stradale di lieve entità. Qui, però, di leggero non c’è stato proprio nulla. Tantomeno di amichevole, perché il fuoriclasse azzurro è stato vittima di ottusità, calunnia e ignoranza.
“Incombeva”, scrive Jannik. L’amarezza è palese. Il verbo dà il senso di che cosa abbia attraversato la testa di questo ragazzo: le domande, la ricerca di un perché, le notti insonni, i dubbi, il timore di conseguenze forse irreparabili sulla carriera. Soprattutto il pericolo di perdere per sempre la gioia del gioco, vittima di un sistema che stritola chi finisce – senza dolo né colpa diretta, indica il patteggiamento – nelle lame dei suoi perversi meccanismi. La Wada ritiene l’atleta non colpevole, eppure gli infligge una pena di tre mesi. Poca cosa? Tutt’altro, e non solo per la classifica, i punti persi, i premi e probabilmente il primato lasciati agli avversari. Tre mesi senza gare e due senza allenamenti, senza felicità e senza voglia di rivalsa. Senza l’adrenalina del campo e senza la possibilità di migliorarsi come giocatore e come uomo: è la summa di una giustizia che si contraddice nella sentenza emanata. Sembra di assistere alla replica del Processo di Kafka, pur se non si è arrivati in aula. O di rivedere il film di Harry Potter, dove il predestinato piccolo e indifeso viene trascinato davanti al Consiglio di disciplina della Magia, istituzione complice del Cavaliere Oscuro. Meglio uscirne comunque ammaccati ma vivi, meglio dare un taglio definitivo. Respirare. Uscire dal labirinto per liberarsi dall’angoscia con il male minore. Grazie no grazie, viene da dire d’istinto.
Le stesse parole che Jannik avrà pronunciato davanti ai suoi avvocati, quando gli hanno messo sul piatto questa soluzione. Poi avrà preso atto che i tribunali dello sport sono uguali a quelli della vita di ogni giorno: spesso inadatti a garantire equità e discernimento, e per di più incapaci di giudicare in tempi brevi. Mettiamoci nei suoi panni. Il campione deve aver centellinato la situazione, ricorrendo al mantra che l’ha accompagnato durante le tappe dell’odissea: “Ci sono cose che non dioendono da noi e possiamo controllare”, è davvero così. “Wada riconosce che il sig. Sinner non aveva intenzione di barare e che la sua esposizione al clostebol non ha fornito alcun beneficio in termini di prestazioni, avvenendo a sua insaputa a causa della negligenza di alcuni membri del suo entourage”, recita l’accordo. Dunque l’atleta è un colpevole non colpevole. Perché la responsabilità oggettiva nei confronti di un non-doping accertato è un affronto al buonsenso, oltreché alla ragione. La verità è un’altra e tutti la conoscono. La quantità di sostanza proibita riscontata nelle analisi è così impalpabile che il caso non doveva neppure essere aperto, altro che chiuderlo. E a che prezzo, poi.
“Ho accettato l’offerta”, ammette Sinner. Il minimo della pena. Ma il mercanteggiamento ammesso dalle regole è un brutto gioco di dare e avere, un sistema di pesi e contrappesi che ha poco a che fare con la bilancia teorica della giustizia. Lascia inoltre lo sgradevole tanfo del sospetto da entrambe le parti e non ammaina la tesi che i colpevolisti continueranno a sventolare a lungo: se ha patteggiato è perché sa di avere torto, è la bandiera degli odiatori del web subito in movimento. Immaginiamo i commenti negli spogliatoi, sono in tanti a godere della penalizzazione. E il pubblico come reagirà? E gli sponsor che hanno investito sul giovanotto senza macchia e senza paura? Il fatto è che Sinner ha perso. Ha perso l’innocenza, il diritto a credere che nessun male avrà chi male non ha fatto. Ha perso anche la Wada, legittimando l’idea che qualsiasi contatto involontario con una sostanza proibita porti alla squalifica. Atteggiamento da ipocrita Santa Inquisizione, avendo già annunciato cambiamenti radicali a partire dal 2027: un setaccio a maglie più larghe eviterà altri casi Sinner in futuro, dimenticando il caso Sinner di oggi. E’ una decisione crudele e offensiva. Che pesa enormemente di più di un miliardesimo di grammo.