Non succederà più. Nessuno potrà addormentarsi su un campo dell’All England Club come accadde a Dorothy Cavis-Brown il 22 giugno 1964, in un afoso pomeriggio londinese. L’elegante signora molto british, tailleur, calze di nylon, décolleté chiare con tacco cinque e giro di perle, era stata assegnata al campo numero 3 nell’apertura di Wimbledon. Le toccava d’essere giudice di linea nell’incontro tra il sudafricano Abe Segal e l’americano Clark Graebner, parte bassa del tabellone. Dorothy si accomoda sulla seggiola davanti ai teloni, inforcando gli occhiali. Il primo set corre veloce, il serve-and-volley di Segal è dominante. Poi la reazione di Graebner allunga il match finché l’altro vola 7-5. Nella terza frazione il sudafricano prende due break di vantaggio, è quasi fatta. Dorothy si rilassa, accavalla le gambe, socchiude gli occhi per difendersi dal sole. È un attimo fatale. Si appisola. Tra le risate degli spettatori, un raccattapalle cerca di svegliarla. Senza riuscirci. Segal le dà un tocco sulla spalla, lei si scuote e grida: out. La partita è ufficialmente conclusa. Così come la carriera di miss Cavis-Brown.
Non succederà più. Perché dal primo gennaio il Circus del tennis professionistico manda in pensione i giudici di linea: a decidere se una palla è buona o fuori sarà ovunque (con una sola eccezione: il Roland Garros che si gioca sulla terra battuta) l’intelligenza artificiale. Meglio le macchine, è la sentenza irrevocabile dell’Atp dopo tormentati ragionamenti. In fin dei conti costano meno — nei tornei Slam, durata due settimane, un giudice di linea guadagna dai 1300 ai 4000 euro — e soprattutto sono infallibili, o almeno dovrebbero esserlo. È un cerchio che si chiude, la fine di un percorso cominciato proprio a Wimbledon nel 1980 con un marchingegno elettronico chiamato Ciclope. Piazzato sulla linea del servizio a qualche millimetro dal suolo, sorvegliava quel rettangolo del campo proiettando sei fasci laser a infrarossi: ace o doppio fallo, era lui a stabilirlo. Non a tutti i giocatori piaceva, i più rissosi non si fidavano. Uno in particolare, John McEnroe che lo contestò al Masters 1989 protestando con l’arbitro: “Non voglio sembrare paranoico ma questa macchina sa chi sono”.
Ciclope è finito in soffitta per l’avvento di Hawk Eye, confidenzialmente Occhione, che ha esordito all’US Open 2006. La sua tecnologia è basata sul principio della triangolazione: usa le immagini registrate da telecamere messe in diversi angoli del campo, che catturano il rimbalzo della pallina. Un computer le analizza, quindi emette la sentenza all’istante. Il pubblico può verificare live la ricostruzione grafica sullo schermo dello stadio. Va detto che Occhione convive una relazione di fatto con i giudici di linea: entra in azione su richiesta dei giocatori, insoddisfatti della chiamata, per un numero limitato di volte. Insomma funziona un po’ come il Var del calcio, nel senso che è un sussidio per l’arbitro sul seggiolone. Non lo sostituisce.
Tutt’altra cosa oggi è l’Elc, che sta per Elecronic Line Calling. Si tratta di un sistema di chiamata elettronica introdotto nel 2017: non più un controllo, con eventuale correzione, dell’unico giudice superstite, ma un sistema integrato con la voce elettronica che urla out al posto dell’umana. Dà una visione reale della traiettoria della palla, attraverso quaranta telecamere in grado di fornire 150mila immagini al secondo. Prodigio della tecnica indispensabile secondo gli esperti e la maggioranza degli atleti: quando l’occhio umano segue un servizio che viaggia oltre i 200 chilometri orari, l’errore è inevitabile. Perciò la rivoluzione ha preso forma. Cancellando un ruolo, una forza lavoro e una tradizione che risale a un secolo e mezzo fa.
Resteranno tuttavia nella memoria i siparietti leggendari di Jimmy Connors, che cancellò con la scarpa il segno della pallina sulla terra verde di Forest Hills, beffando l’attonito Corrado Barazzutti nella semifinale del 1977 a New York. E l’immagine di Adriano Panatta che scuote l’arbitro sul seggiolone nella finale di Davis persa dall’Italia nel 1980 a Praga: “Dovevamo tirare un metro e mezzo prima delle righe, ci chiamavano fuori ogni colpo”. Oppure le palle rubate da Ilie Nastase, il romeno principe degli imbroglioni. O le multe da decine di migliaia di euro accumulate da Fabio Fognini per le racchette fracassate e i verbal abuse. E ancora i warning e i penalty point inflitti ad Andrej Rublev dopo un punto controverso.
È la modernità, bellezza. Pazienza se toglie il fascino della gazzarra allo show. Peccato se crea una piccola legione di disoccupati: del resto nella nostra vita quotidiana, fra cellulari e pc, impera il correttore automatico. Quando il dentifricio esce dal tubetto, è impossibile rimetterlo dentro. Bisogna solo sperare che le cose filino lisce. Ma guai a fidarsi a occhi chiusi dell’elettronica. La prima avvisaglia è arrivata nel 2021 a Miami, quarto di finale tra Sinner e Ruusuvuori sospeso per incidente tecnico: Hawk Eye era impazzito come il computer Hal in 2001 Odissea nello spazio. C’è voluto un bel po’ prima di ricominciare alla vecchia maniera, per assurdo che possa sembrare non si trovavano riservisti in carne e ossa. La lezione è: attenti a rimpiazzare gli esseri umani con una macchina. Che dunque, è acclarato, sbaglia anch’essa. Statisticamente il margine di errore va dai 2,2 ai 3,6 millimetri, che può fare la differenza nel tennis supersonico di oggi.
“La domanda non è se il sistema sia sempre corretto al cento per cento, ma se sia migliore di un giudice di linea. E lo è”, sostengono gli inventori. Non ditelo però a Taylor Fritz, numero quattro delle classifiche. Nella sfida con Nakashima, torneo di Cincinnati, un colpo del rivale è uscito di tanto, però il computer ha taciuto. Fritz s’è fermato, l’arbitro gli ha dato ragione inutilmente: “Era fuori, ma non posso farci niente”. Altro episodio. Torneo di Phoenix, finale Berrettini-Borges: servizio vincente del romano, eppure la voce del computer gli toglie l’ace. La palla è buona, l’arbitro allarga le braccia impotente. E allora? Risolve la situazione il fattore umano, cioè il fairplay del portoghese che concede il punto a Berrettini.
Questi blackout tecnologici impongono almeno una riflessione. L’arbitro giudica, ma se una macchina annulla la sua opinione c’è qualcosa che non quadra. Buonsenso e libera scelta possono ancora rendere migliore una partita di tennis. Così pure le nostre vite.