Encefalogramma piatto. Stavolta non c’è proprio niente da salvare. Neanche il carattere che aveva tenuto a galla la nostra mediocre Nazionale nel girone eliminatorio degli Europei di calcio. Contro la Svizzera è crollato tutto. Come se la squadra non fosse mai scesa in campo. Assenza totale di ritmo, lucidità, orgoglio, capacità di reazione. Mancanza perfino di volontà. Come se gli azzurri fossero rassegnati fin dal fischio di inizio alla disfatta. E, in una sorta di rito sacrificale, ritenessero inutilmente dispendioso tentare di giocarsela pur contro un avversario che sulla carta non appariva poi così irresistibile. Nei pronostici della vigilia la Svizzera non era quotata fra le prime dieci (l’Italia era al settimo posto). Nello sconto diretto è apparsa di un altro pianeta rispetto a una delle più scolorite e scalcagnate esibizioni nell’ultracentenaria storia della Nazionale azzurra.
Salvo che nelle belanti iniziative scaturite solo per forza di inerzia dopo il raddoppio degli svizzeri, gli azzurri sono sempre stati in balia della supremazia avversaria. Non hanno mai preso in mano il pallino del gioco. Si sono mostrati tremebondi e impacciati nel tentativo di arginare le folate offensive: disastroso in particolare, come nelle precedenti partite, Di Lorenzo incapace di arginare la girandola di dribbling. Ancora una volta saremmo stati sconfitti con un passivo più pesante senza un paio di prodigiosi interventi di Donnarumma, l’unico al di sopra della sufficienza. Sul centrocampo meglio stendere un velo pietoso. Non è riuscito a imbastire una sola azione suscettibile di sviluppi. Lenta e involuta la manovra incapace di gestire due passaggi di fila. Latitanza completa di vivacità e idee. Perfino il moto perpetuo Barella è sembrato un ectoplasma. E il giovane Fagioli immesso al posto dello statico Jorginho ha cesellato solo un paio di interessanti lanci in profondità ma si è macchiato anche di un paio di errori sanguinosi, fra cui il passaggio sbagliato che ha portato al secondo gol della Svizzera. Ma la responsabilità maggiore ricade su Spalletti che non doveva caricare il peso preponderante della costruzione sulle spalle di un quasi esordiente che per via dello scandalo delle scommesse aveva per di più giocato solo qualche minuto nello scorso campionato.

Inesistente, come contro la Croazia, il reparto offensivo. Sia nella versione a una punta (Scamacca, che in maglia azzurra ha fallito l’ennesima occasione) che in quella a due (con l’aggiunta di un Retegui volonteroso ma confuso). E non si è accesa neanche la lampadina di Chiesa, sterile anche nelle occasionali sgroppate.
È vero che se lo stallone ci avesse un’altra volta assistito avemmo anche potuto agganciare i supplementari (e poi chissà) visto che abbiamo beneficiato di un casuale autopalo e siamo poi stati fermati da un secondo palo (sia pur con Scamacca in sospetto fuorigioco). Ma è onesto riconoscere che non abbiamo mai davvero minacciato con tiri pericolosi la porta di Sommer.
L’Italia rimane così relegata nelle seconde file del calcio continentale. Possiamo consolarci con la qualificazione agli ottavi che ci ha evitato la mortificazione di una bocciatura immediata. Ma occorre anche ricordare che senza la miracolosa rete al 98’ di Zaccagni contro la Croazia saremmo usciti di scena già nel primo turno, con quattro giorni di anticipo.

Nella difficile ricostruzione di una Nazionale che dopo la sorprendente conquista dell’Europeo nel 2021 aveva fallito la qualificazione al mondiale proprio a vantaggio della Svizzera non si è registrato alcun segno di progresso. Spalletti, che ha raccolto dodici mesi fa l’eredità di Mancini, è ancora all’anno zero. Ha puntato su un tipo di calcio fluido, più vicino alla filosofia del football relazionale (libertà all’estro e alla fantasia) rispetto a quello posizionale (evoluzione del tiki tata di Guardiola), tentando di riprodurre gli schemi incisivi e spettacolari del Napoli che nel 2023 conquistò il suo terzo scudetto. Ma non ha trovato gli interpreti adatti. Ha sicuramente l’alibi di un bacino di selezione risicato. Condizionato dalla eccessiva presenza degli stranieri nel nostro campionato. Oltre che da un inaridimento di una scuola calcistica che imbriglia il talento privilegiando la tattica sulla tecnica. Il risultato è che, escluse pochissime eccezioni, oggi non abbiamo più campioni.
L’eliminazione di Berlino, proprio nello stadio in cui vincemmo il quarto mondiale nel 2006, è stata accostata alla storica Waterloo della Nazionale contro la Corea del Nord nel mondiale in Inghilterra del 1966. Mettendo sotto processo lo stesso Spalletti, passato in un baleno da salvatore della patria calcistica a affossatore della medesima. Al punto che subito dopo la partita si era sparsa la voce di possibili esoneri o dimissioni, subito smentiti. Un pessimismo cosmico, dovuto alla tremenda delusione del momento.
Il mandato di Spalletti non è mai stato quello di rivincere l’Europeo. Ma quello di rilanciare la Nazionale portandola almeno alla qualificazione (per due volte insopportabilmente fallita) ai mondiali negli Usa del 2026. In Germania si è capito che è un compito in salita. Ma non manca il tempo per migliorare tecnicamente. Forgiare un’idea compatta di gioco. Trovare i sentieri per una crescita costante. Fortificare un carattere che sia pure a tratti si era intravisto nel girone eliminatorio del torneo e ci aveva consentito di arrivare ai quarti. E poi, per non affogare nella depressione e tirare un po’ su l’autostima, possiamo aggrapparci alla scaramanzia. L’America ci porta bene. Nel mondiale del 1994 arrivammo in finale, sconfitti solo ai rigori dal Brasile.