Un’era non esattamente densa di successi che si chiude, un’altra era che desta grande curiosità – quella di Thiago Motta – che si apre. Estate di cambiamenti alla Juventus, dopo l’addio tumultuoso con Massimiliano Allegri: dalla vittoria in Coppa Italia – unico trofeo della sua seconda esperienza bianconera, a fronte di un ingaggio maxi – all’esonero per giusta causa, poi finito con un accordo economico con il club.
Non era un tecnico scelto dal ds bianconero Cristiano Giuntoli, arrivato a Torino un anno fa dal Napoli, e inevitabilmente alla prima occasione utile c’è stato il cambio: un matrimonio che un anno fa ha retto più per convenienza che altro (ci sarebbero stati due anni da pagare a 9 milioni netti per la Juve) e che è saltato per cambiare registro, anche sul piano tecnico.
Non a caso, la Juventus passa da un “risultatista” puro come Allegri e il suo “corto muso” a Thiago Motta e al gioco fluido e piacevole che ha portato il Bologna ad una storica qualificazione in Champions League, a 60 anni dall’ultima Coppa Campioni giocata dai rossoblù. La sua eredità a Bologna dovrà raccoglierla Vincenzo Italiano, reduce da tre anni alla Fiorentina decisamente interessanti pur con la mancanza della ciliegina finale (cioè un trofeo, dopo due finali di Conference League e una di Coppa Italia in tre stagioni), mentre l’ex centrocampista della nazionale italiana dovrà cercare di riportare la Juventus in alto. Come?
Proviamo a spiegarlo – in attesa del mercato bianconero, portato avanti dal ds Cristiano Giuntoli – con la tesi con cui Thiago Motta ha ottenuto il Master a Coverciano con il voto di 108/110, il più alto di una classe in cui figuravano anche Andrea Pirlo e proprio il suo successore in rossoblù Vincenzo Italiano. Un testo di 28 pagine che si intitola «Il valore del pallone – Lo strumento del mestiere nel cuore del gioco» che la dice lunga su quanto Motta punti sul gioco, sul possesso della sfera, sul dominio in campo.
Comincia tutto dal pallone, come ha dimostrato il suo Bologna negli ultimi due anni di crescita esponenziale in cui ha fatto rendere al meglio i giocatori acquistati sul mercato da un guru del settore come Giovanni Sartori: nel mondo di Thiago Motta tutto comincia proprio da una palla, regalatagli dal padre Carlos Roberto per il suo compleanno, con cui il piccolo Thiago ha quasi un rapporto simbiotico, un po’ il pallone come migliore amico di Oliver Hutton, personaggio del cartone animato sul calcio “Holly e Benji” (“Captain Tsubasa”, nel suo titolo originale).
Dal legame fanciullesco allo sviluppo nel calcio, con il pallone che diventa “il bene più prezioso”: perderlo, in una qualsiasi situazione di gioco, era “una sorta di crimine calcistico, perché si perdeva non solo l’oggetto dall’alto valore personale (il regalo del papà), ma anche lo strumento indispensabile per esprimere l’appartenenza al gruppo-squadra”. Da giocatore Motta ha affinato la filosofia sul controllo del pallone nel Barcellona, migliorando la strategia di conservazione che poi da allenatore lo ha reso un tecnico molto focalizzato sul possesso palla (il suo Bologna è stato in cima delle statistiche del settore), trovando poi vari modi di applicarlo: ha giocato agli ordini dei più grandi, da Ancelotti a Mourinho passando per Gasperini, e per sua stessa ammissione ha cercato di prendere un po’ da tutti.

Quella di Motta non è una tesi solo di calcio. Forse perché per dirla alla Mourinho, “chi sa solo di calcio non sa nulla di calcio”. E vengono citati due big della psicologia e della filosofia come Sigmund Freud e Umberto Galimberti: “La palla si può definire come uno strumento di lavoro — si legge nella tesi — attraverso cui si esprimono le capacità di ogni membro della squadra, ossia del gruppo di lavoro unito dal principale obiettivo di fare gol e di vincere”.
Alla Continassa, si vedranno parecchi allenamenti sul tema del possesso palla: a Casteldebole, negli allenamenti rossoblù, la palla non mancava mai perchè è “un mezzo per sviluppare l’intelligenza emotiva del giocatore, alla base del rapporto che costituisce l’essenza dello spirito di squadra”. L’altro grande tema è proprio quello, il gruppo e “la creazione di uno spirito di squadra virtuoso”, altra grande forza del Bologna qualificatosi alla coppa più nobile. Perchè spesso la serenità può aiutare i singoli a combattere lo stress derivante dall’obiettivo da raggiungere, che spesso può sfociare in una mancata padronanza del pallone. Anche per perfezionare questo, tra Brasile e Spagna, si lavora al massimo sulla confidenza con la sfera in allenamento. E sarà così anche a Torino.
Dal lato umano a quello tecnico, con alcuni spunti fondamentali all’interno della sua tesi diventata manifesto del suo calcio: l’elogio del collettivo e dell’organizzazione generale non tarpano le ali all’iniziativa in campo del singolo, elemento di “fiducia tecnica collettiva” mutuata da una figura molto carismatica come il “Loco” Bielsa, che nel suo Leeds proponeva il difensore centrale che si stacca e va a proporsi nello spazio proprio come a Bologna facevano i centrali difensivi. E in particolare quel Riccardo Calafiori, arrivato in azzurro con le sue prestazioni a Bologna, che Motta ora rivorrebbe con sé in bianconero.
Da Bielsa a Low, ex c.t. della Germania che è stato esempio di riconquista immediata della palla, altro caposaldo del calcio mottiano: qualcosa di simile al Gegenpressing che poi ha reso famoso e vincente Jurgen Klopp. «Quando la squadra si posiziona in modo coerente ed omogeneo rispetto alla posizione del pallone – si legge sempre nella tesi – si riducono le opzioni tattiche degli avversari, ma soprattutto aumenta l’efficacia tattica e fisica della propria squadra». Così Motta ha reso Zirkzee un attaccante totale, così ha portato il Bologna in alto come non succedeva da sessant’anni. Così dovrà far tornare a vincere la Juventus, la sfida più difficile dopo anni di sostanziale anonimato.