Olimpiade invernale di Innsbruck, corre il 1964. Sulla pista di bob si compie un evento che resterà nella storia dei Giochi. I britannici Tony Nash e Robin Dixon stanno per abbandonare dopo la terza discesa: si è rotto un bullone che tiene insieme l’asse portante. Servirebbe un miracolo per scongiurare il ritiro, il miracolo avviene.

È nel gesto di Eugenio Monti, portabandiera della spedizione azzurra. Il pilota dell’equipaggio italiano è in lotta per il successo, eppure offre ai rivali il pezzo che serve a evitare il disastro. Il bob inglese è un razzo, stampa il miglior tempo: vince l’oro. Monti e Sergio Siorpaes sono terzi. “La lealtà di Monti è la cortesia più grande che io abbia mai ricevuto come sportivo”, commenta Nash alla fine. La stampa nostrana non gradisce però il salvagente lanciato alla concorrenza, e Monti risponde duro alle critiche: “Nash non ha vinto perché gli ho dato il bullone. Ha vinto perché è andato più veloce”. La nobiltà ne fa il primo atleta a meritare la medaglia Pierre De Coubertin per il fair play. Senso dell’amicizia e rispetto dell’avversario valgono il prezzo di una sconfitta.
Già, ma chi è Eugenio Monti? Da dove viene? È nato a Dobbiaco, in Val Pusteria, il 23 gennaio 1928. Il padre Ugo e la madre Adelo lo iscrivono alle elementari in paese, poi il ragazzo prenderà la maturità scientifica a Cortina d’Ampezzo dove la famiglia si è trasferita. Sarà quel posto fatato il centro della sua esistenza, il luogo del cuore dove cresce imparando a sciare. Si distingue nei campionati studenteschi e un giornalista – si chiama Gianni Brera – scrive di lui sulla Gazzetta dello Sport affibbiandogli un nomignolo che gli sta come una seconda pelle: Rosso Volante, per il colore dei capelli e la grinta che ci mette.
Il giovanotto diventa campione nazionale di slalom gigante e speciale tra il ’49 e il ’50, però stupisce soprattutto nella discesa libera che ne esalta l’ardimento. A Chamonix batte Zeno Colò, il migliore di sempre. E sul Kandahar, tempio della velocità, arriva secondo per due centesimi dietro James Coutett, re della combinata. È molto più che una promessa dello sci, quando un dannato incidente gli tronca la carriera. Il 23 gennaio del ’51 cade in allenamento al Sestriere: ginocchio a pezzi, legamenti strappati.
È dura ma ci lavora su. Si opera, affronta una complicata riabilitazione, torna. La sfortuna l’ha preso di mira e lo colpisce anche l’anno successivo alla vigilia dei Giochi di Oslo, infierendo a Cervinia sul ginocchio martoriato. Fine della corsa e lo strascico di una leggera zoppia.

A conquistare la libera in Norvegia è Colò, che gli scrive una lettera cavalleresca sulla Gazzetta: “Mancavi solo tu e il tracciato era perfetto per te”. Non c’è tempo per i rimpianti. Monti capisce che giocoforza è il momento di cambiare spartito: spinto dall’amore per la velocità e il rischio, a metà degli anni ’50 partecipa con le scuderie Centro-Sud e L’Arena alle gare di automobilismo. Le corse in salita al volante di una Osca, il circuito di Pau con una Cooper-Maserati, il Giro di Sicilia su una Ferrari ufficiale, Monza, Vallelunga. Si mette in tasca titoli di classe e assoluti ma il suo orizzonte sono le montagne.
Decide di dedicarsi al bob e il .ripiego si trasforma in passione travolgente. Nel ’54 conquista il suo primo campionato nazionale, utilizzando un veicolo creato dall’amico Siorpaes nella bottega di fabbro a Cortina. L’apporto di Eugenio è decisivo per lo sviluppo dei materiali. L’invenzione rappresenta una rivoluzione tecnologica rispetto ai modelli precedenti, pericolosi e poco governabili: il nuovo bob è formato da due sezioni distinte ed è proprio la divisione del muso dalla parte posteriore a permettere la massima aderenza dei quattro pattini. Inoltre un braccio retrattile emerge dal cofano consentendo al pilota di spingere in avanti e non in obliquo. Tutti questi elementi esaltano le capacità di guida di Monti, l’uomo che sul ghiaccio ha imparato a disegnare traiettorie sublimi.
Arriviamo al 1956, Olimpiadi di Cortina. Il Rosso c’è e gioca in casa: si mette al collo due prestigiose medaglie d’argento, che sanno di agrodolce per chi punta al bersaglio grosso. Quattro anni più tardi, a Squaw Valley, una beffa gli impedisce di riprovarci. Incredibilmente il magnate che finanzia l’edizione americana finisce i soldi e non è possibile costruire la pista di bob. Monti e i compagni – per ciascuno di loro sarà sempre “il mio capitano” – si rifanno vincendo titoli mondiali a ripetizione, ma i Giochi sono un’altra cosa.
Quello che succede a Innsbruck nel 1964 entra nella memoria collettiva, regalandogli una vittoria morale e onore infinito. Ma l’ultimo treno è passato lasciandolo a terra. Il capitano si avvia al capolinea senza aver sconfitto la maledizione olimpica, a Grenoble nel 1968 avrebbe sulle spalle la zavorra dei quarant’anni. Smettere? Macché, combatte. E proprio nell’ultima occasione tira fuori un gioco di prestigio.
L’Olimpiade francese veste tricolore: Franco Nones vince a sorpresa la 30 chilometri di fondo, Erika Lechner trionfa nello slittino. All’appello manca ancora l’oro più desiderato, inseguito, strameritato. Monti ha un appuntamento lungo il budello tortuoso dell’Alpe d’Huez – la montagna di Fausto Coppi – e arriva puntuale. Sale sul bob e mostra il suo immenso talento, la forza di volontà, l’arte di non arrendersi. A vederlo da fuori sembra un ragioniere, lo zio di mezz’età o un professore che spiega la lezione ai ragazzi, è piccolino e non possiede i muscoli degli uomini di spinta. Però si butta in picchiata da impavido kamikaze, pettinando i muri lisci di ghiaccio.
Lui davanti, il frenatore Luciano De Paolis dietro: l’equipaggio di Italia 1 alla vigilia dell’ultima prova è tuttavia alle spalle dei tedeschi dell’ovest Floth e Bader. Li separano dieci centesimi. Un niente, un battito d’ali. Il via è alle cinque del mattino, per evitare lo scirocco che scalda la pista. Il capitano coraggioso scende come un turbine nel toboga inseguendo la perfezione: fa il record ma non basta. C’è da aspettare la manche della coppia rivale, che segna un tempo complessivo uguale al suo. Il pubblico guarda il tabellone: chi ha vinto? Sandro Ciotti alla radio annuncia la parità. Il regolamento ripara ai torti della sorte e premia la discesa più veloce in assoluto: i nostri ce l’hanno fatta, Monti ce l’ha fatta.
Due giorni dopo bissa il successo ripetendosi assieme a Roberto Zandonella, Mario Armano e allo stesso De Paolis. L’Italia lo acclama come un supereroe. Non è Pelè o Giacomo Agostini, ma per i bambini è un mito e una figurina rara da attaccare sull’album Panini dei Campioni dello Sport. Non ha più nulla da chiedere alle gare: sei medaglie olimpiche (due d’oro) e dieci medaglie mondiali (nove d’oro) sono abbastanza.
Il rosso malpelo si ritira sistemando nel garage, coperto da un lenzuolo, il bob in vetroresina – creatura avveniristica realizzata dai chimici Borgnolo e Spangaro. Accetta l’incarico di direttore agonistico della Nazionale, una breve parentesi perché gli piace poco stare ai margini. Si occupa degli impianti di risalita, fondando a Cortina la società Olimpia e poi la Faloria, che nel ’91 gli costa una condanna in primo grado a 20 giorni di arresto – prescritti in appello – per danni ambientali nella costruzione della seggiovia. Un’amarezza e una macchia per il galantuomo delle nevi. Appena lenita dalla nomina a commendatore della Repubblica in virtù dei meriti sportivi.
Quella dolorosa vicenda è solo l’avvisaglia di un terremoto in tre atti che distrugge la sua famiglia. Dapprima il divorzio nel 1997 dalla moglie americana Linda Lee Constantine. Quindi la separazione dalla figlia Amanda, che sceglie di stare con la madre in Florida. Infine la scomparsa crudele per overdose del figlio ventitreenne Alec. Tramortito dal destino avverso, il capitano si trova dinanzi altri due avversari contro cui non serve lottare: la solitudine e il morbo di Parkinson. Si ritrova sofferente, tormentato, fragile. Serve un atto di coraggio perché morire un po’ alla volta, giorno per giorno, non è da lui.
Il 30 novembre 2003, a 75 anni, scrive l’addio in una lettera e pone fine alla vita sparandosi un colpo di pistola in testa. Nel garage, accanto al suo bob. L’agonia dura un giorno: la luce si spegne definitivamente all’ospedale di Belluno, la leggenda mai. A Monti è intitolata la pista di Cortina. Porta il suo nome la curva più difficile del tracciato olimpico di Torino 2006. È nella Walk of Fame dello sport italiano. E il Saint Moritz Bobsleigh Club, uno dei più esclusivi del circo bianco, all’uscita della curva 4 del tracciato gli ha dedicato un monumento: il Monti’s bolt, cioè il bullone di Monti.