Tre finali perse su tre. Ma, al di là dei numeri impietosi, per il calcio italiano il bicchiere non è del tutto vuoto. Sia per le sfortunate circostanze in cui le sconfitte di stretta misura sono maturate sia perché sono comunque la testimonianza di una crescita che riduce in parte il gap fra gli affanni finanziari del nostro football e lo strapotere economico (pompato da arabi e americani) di quello inglese.
Sulla carta fra il Manchester City, che in semifinale aveva stritolato il Real Madrid, e l’altalenante Inter, dalle troppe sconfitte in campionato, non doveva esserci partita. Di fatto lo squadrone di Pep Guardiola è stato costretto ad aggiudicarsi di corto muso, un po’ all’italiana, la prima Champions della sua storia (Manchester ora divide con Milano il primato di aver vinto con due squadre diverse il massimo trofeo continentale). Il tecnico nerazzurro Simone Inzaghi è riuscito a imbrigliare la supercorazzata inglese isterilendo il suo ipnotico possesso di palla e disinnescando Haaland che in questo momento è considerato il miglior centravanti del mondo. E con l’arma delle ripartenze fulminee è riuscito a creare più occasioni da gol degli inglesi, anche se poi sono state vanificate dalla sfortuna e dalla scarsa precisione di Lukaku. A David stavolta non è riuscita l’impresa di abbattere Golia ma gli è mancata solo un pizzico di buona sorte per trascinarlo almeno ai tempi supplementari.

Alla fine si è imposta più la casualità (l’unica distrazione della difesa interista sul gol da distanza di Rodri) che la stratosferica differenza di risorse economiche. Lo sceicco Mansour, vicepresidente degli Emirati Arabi Uniti e proprietario de Manchester City, in 15 anni ha speso quasi due miliardi di euro per allestire lo squadrone di Guardiola e coronare il sogno della Champions. Elargiti quasi nel disinteresse dal momento che si è scomodato a tornare a vedere la sua squadra a Istanbul dopo tredici anni (nella sua precedente apparizione il Manchester City era allenato da Roberto Mancini, oggi tecnico della nostra Nazionale). Mentre Steven Zhang, il giovane presidente cinese dell’Inter, si dibatte in ambasce finanziarie dopo la svolta politica di Pechino che non asseconda più gli investimenti nel calcio dei suoi imprenditori. Sul campo il divario è stato quasi annullato dal patrimonio tecnico-tattico del football italico che principalmente appunto per carenza di capitali non è più al centro della scena. L’ultima Champions la portò in Italia proprio l’Inter di Mourinho 13 anni fa. E poi la Coppa dalla grandi orecchie fu solo sfiorata per due volte in finale dalla Juve, come sabato sera dai nerazzurri.
Il libro dei rimpianti comprende ovviamente anche le sconfitte in Europa League della Roma e in Conference League della Fiorentina. In entrambi i casi dovute più a difetti di esperienza che a inferiorità. La Roma contro il Siviglia (sovrano assoluto, con sette vittorie, di quella Coppa) è stata anche penalizzata da una serie di controverse interpretazioni arbitrali. Ma soprattutto è giunta sgonfia, spompata, all’avventura dei rigori come le era successo in circostanze ancor più drammatiche nella finale della Coppa dei Campioni dell’84 all’Olimpico contro il Liverpool. La Fiorentina contro il West Ham ha dominato per quasi tutta la partita ma poi si è fatta prendere ingenuamente di infilata da un contropiede a pochi minuti dalla fine quando non c’era più tempo per recuperare.

Sono mancati dunque i risultati, anche se portare tre squadre in finale (una per ogni competizione) è stato già un traguardo considerevole. Ma è salvo l’onore e ed è accresciuto l’orgoglio. Le basi per accelerare una crescita che al momento non può essere alimentata dal carburante dei grandi capitali, freno anche all’annoso problema degli stadi perlopiù obsoleti. Ma che può essere sostenuta dal peso immutato della tradizione e dalla flessibilità di una scuola aperta alle innovazioni. Come dimostra la straordinaria stagione del Napoli vincitore di uno storico scudetto e che per la modernità del suo gioco avrebbe meritato miglior sorte anche nelle Coppe.