Eh no che non ci sperava Rafa, stavolta. Sapeva di non avere chance, dopo che a settembre aveva addirittura rischiato di non vedere mai più un campo da tennis, per quel solito problema al piede che lo tormenta da anni.
Nel fare “no” con la testa, chiudendo l’ultimo punto di una finale durata 5 ore e 24 minuti, chissà quante immagini gli sono passate davanti. Il dolore, il ritiro, i riflettori che si spengono.
E invece eccolo, a sollevare un trofeo che pesa come un macigno e che gli fa compiere un passo enorme della storia di uno sport che con i suoi successi ha contribuito a costruire. È stata la seconda finale Slam più lunga della storia, dietro soltanto a quella che sugli stessi campi australiani si giocò tra Nadal e Djokovic nel 2012. 5 ore e 53 quella volta, con lo spagnolo che però ne uscì sconfitto.
Oggi l’epilogo è diverso, ma per le prime due ore di gioco nessuno se lo sarebbe aspettato. Troppo forte sembrava il russo: veloce e centrato con quel rovescio che, seppur brutto, riusciva a anticipare la parabola mancina di Nadal.
Daniil difende, resiste, contrattacca, batte come un treno e ha vita facile nel rispondere ai servizi fiacchi di un maiorchino che non sa come uscire dalla trappola.
Nel secondo Rafa ha qualche chance, per due volte va in vantaggio di un break, ma Medvedev si muove ancora troppo bene e, quando il punto conta, il rovescio non lo abbandona mai. Con un tiebreak chiude il parziale. “È finita”, dicono tutti.
Ma Rafa in carriera ha imparato che è dai piccoli spiragli che si costruiscono le vittorie. E infatti quando il russo perde un po’ di lucidità lui è lì, pur soffrendo, a far ruotare di più la sua palla già carica. Frullano le gambe attorno ai colpi corti del numero due del mondo ed è con il solito dritto che affonda. Vince il terzo set e si rimette in carreggiata.

Scoccano le quattro ore e, quando le gambe non funzionano più, inizia a lavorare la testa. Tatticamente Nadal è un maestro e capendo la confusione negli schemi dell’avversario, inizia a mescolare le carte. Aumentano i back, le palle corte, si vede qualche discesa a rete. Il piano funziona: contro ogni pronostico, arriva il set decisivo.
In quel momento, forse a Medvedev sono tornati i ricordi della partita giocata e persa con lo spagnolo in un’altra finale Slam, agli Us Open del 2019. Lì il russo andò sotto di due set, rimontò e si sciolse sul più bello.
“Oh no – avrà pensato subendo il break ad inizio del quinto – questo è un dèjà vu”.

E déjà vu lo è davvero, perché pur tremando nel momento di chiudere (Rafa ha servito per il match sul 5-4, subendo il break), pochi minuti dopo Nadal conduce 6-5/40-0. Tre chance per scrivere la parola fine all’incontro. Basta la prima.
Servizio al corpo, dritto a sventaglio e volée di rovescio. Le mani sul viso di chi non può credere a ciò che è appena riuscito a fare. È lo Slam numero 21, quello che gli permette di staccare per la prima volta Roger Federer, fermo a quota 20. L’Australia sembrava maledetta, dopo il successo del 2009. Tante finali e soprattutto tante occasioni perse.
Ora però, quel trofeo lo stringe forte tra le braccia. L’ha vinto a modo suo, come nessun altro sa fare, tirandosi fuori dalle sabbie mobili quando restava libero soltanto l’ultimo ciuffo di capelli.
C’è una ragione se nel tennis tutti ripetono “mai dare per morto Nadal”. La ragione è questa. Nadal, morto, non lo è mai.