E’ cresciuta inseguendo un sogno. Voleva diventare la prima italiana nel circuito americano della lotta professionistica e c’è riuscita. Monica Passeri, 29 anni compiuti un mese fa, nel 2016 è entrata nel World Wrestling Entertainment: la federazione che schiera i super assi del quadrato. E’ l’unica donna made in Italy. Bionda, fisico scolpito, coraggiosa. Miss Monica – il suo nome di battaglia – è una pin-up che usa cervello e muscoli. Tutto quel che ha ottenuto se l’è guadagnato con la tenacia. E tanto cuore.
Perché proprio il wrestling?
“Me ne sono innamorata a 12 anni, guardando gli incontri in tivù assieme a mio fratello e ai suoi amici. Facevo danza classica a Caprara, un paesino abruzzese di 1200 abitanti a due passi da Pescara. Finché ho scoperto quella roba americana: uno sport mescolato allo spettacolo, il ring, lo speaker che strilla al microfono, le luci abbaglianti, i personaggi bizzarri, la teatralità. L’entusiasmo del pubblico, i boati, gli applausi. Ho detto: cavolo, è un circo bellissimo, voglio farlo anch’io”.
Folgorata da bambina. E quindi?
“Dovevo risolvere il problema: dove e come fare wrestling? Ho provato la kick boxing: un surrogato, certo, ma comunque era qualcosa che somigliava. Poi ho scoperto una palestra di pionieri ad Ancona. Il sabato, dopo la scuola, prendevo il treno con mio fratello per andare ad allenarmi nelle Marche. Dopo un po’ lui si è stufato. Io no, non ho mai pensato di smettere”.
Un chiodo fisso?
“Il piano era: andarmene da casa, attraversare l’oceano, essere a tutti gli effetti una professionista. Mi aspettavano l’America del cinema, la musica, le metropoli e la provincia profonda. La terra delle opportunità e del merito. Il wrestling era il mezzo e il fine, dovevo arrivarci”.
Per questo faceva la pendolare con Roma?
“Finalmente lì ho trovato un ring come si deve. Frequentavo l’istituto tecnico a Pescara, indirizzo turistico per imparare l’inglese e metterlo nello zaino: alla campanella saltavo sul pullman. In palestra ero la sola ragazza: combattevo con i maschi e loro mi trattavano da maschio, con il massimo rispetto”.
La sua famiglia?
“Sconcertata. Mi accompagnava in palestra mio padre, che ha un furgone per i trasporti merci. Pensava che avrei mollato. Poi ha capito: sa quanto sono cocciuta. Anche mia madre, che ha sempre lavorato in casa e fuori, mi ha sostenuta. Tutti e due dalla parte di quella matta di Monica”.
Si allenava e basta?
“Commentavo gli incontri per Sky e sul canale in chiaro K2. Intanto miglioravo grazie a un trainer messicano: nel primo match ho incrociato una tedesca con dieci anni più di me, un donnone di un metro e 85. Ho combattuto in Spagna e in Inghilterra. Sfide sporadiche, però ingranavo. E ho conosciuto Karim”.
Karim Bartoli, sul quadrato Karim Brigante. Giusto?
“E’ diventato il mio compagno di lotta e di vita, ci ha uniti lo stesso desiderio. Lui era già stato in America. Piano piano avevo messo da parte qualche soldo, gli ho proposto: partiamo insieme stavolta. Era il 2015, cominciava l’avventura”.
La meta?
“Troy, nel Missouri, a una cinquantina di miglia da Saint Louis. Cittadina dove c’è l’accademia di Harley Race, la grande star del wrestling. Un cancro l’ha ucciso due anni fa: il mio maestro, la guida, l’uomo che mi ha avviata alla World League”.
E’ stata dura?
“Durissima. Otto ore al giorno di allenamenti e i combattimenti nel weekend: in cinque stipati su un macchinone americano in tour nel Midwest. Ho viaggiato con il visto temporaneo fra Tennessee, Illinois, Nebraska, Texas. Ho conosciuto l’America on the road, bianchi e neri, hamburger e pollo fritto, le notti nei motel con le insegne al neon lampeggianti che si vedono nei film”.
Con quali sentimenti?
“Guardavo il cielo, la strada e pensavo: che meraviglia essere arrivata fin qui. La fatica spariva in un lampo. Ho investito su me stessa e mi sono realizzata nella lotta. Con l’ambizione di fare tanto e in fretta, perché la carriera del fighter non è eterna. C’è il grande rischio di farsi male”.
Ma il wrestling non è uno show preconfezionato?
“Certo. Però una rappresentazione non è finzione. Ogni colpo, ogni azione, ogni numero va studiato alla perfezione. Va provato e riprovato. Neppure la minima distrazione è ammessa. Ogni volta che voli al tappeto sulle assi di legno subisci un trauma uguale a un tamponamento. Le vertebre sono sotto stress. C’è chi è finito sulla sedia a rotelle”.
Serve tanta preparazione?
“Per imparare a memoria una mossa devi ripeterla all’infinito. Ci vuole un mese, un anno. Forze fisica e forza mentale è il mix indispensabile del lottatore. Ma tutto parte dalla testa”.
Quanto si guadagna?
“Una come me tira su dagli 80 ai 100 dollari a incontro. In media ne faccio 16-18 al mese”.
Pochissimo per vivere.
“C’è il merchandising che è remunerativo. Ogni wrestler vende magliette, video, foto scattate assieme ai fan, autografi. Gli spettatori ti vogliono bene. Se si sono divertiti continuano a seguirti tappa per tappa perché sanno che assisteranno a uno spettacolo ben riuscito. Sanno dove ti esibisci attraverso i social. Nelle arene vengono i tecnici, gli appassionati, le famiglie con i bambini. Mangiano lì e stanno tutta la giornata. E’ uno show integrale. Il pubblico vuole vedere da vicino il proprio beniamino, si crea uno scambio di emozioni”.
Ha un soprannome?
“The Italian bombshell. Rivendico le mie origini e salgo sul ring in pantaloncini e top sventolando il tricolore. Urlo verso gli spalti: Italians do it better. Mi carico. Quando lo speaker annuncia Miss Monica from the Abruzzi è una baraonda”.
Le vogliono bene?
“Mi apprezzano. Il Midwest adora il personaggio che rappresento. Sono l’italiana che sfida il resto del mondo e così stimolo il loro patriottismo. Sono l’avversario che rispettano per l’audacia e la sfrontatezza”.
E’ molto amata dagli emigranti?
“Per gli italo-americani sono la nipotina di Bruno Sammartino, il più grande campione nella storia del wrestling. Un’icona oltreoceano, uno sconosciuto in Italia. Nato come me in un paesino abruzzese: da Pizzoferrato a Pittsburgh, dalla roccia alla città dell’acciaio. La materia di cui sono fatti i lottatori”.
Combatte anche in Europa?
“L’America è ancora chiusa per Covid. Salgo sul ring in Francia, Svizzera, faccio 15 giorni in Inghilterra. Ora sto partendo per la Finlandia. Ogni luogo è una scoperta, la bellezza della vita itinerante è conoscere culture diverse”.
C’è un posto che le piace di più?
“Vorrei tornare in Grecia dove mi hanno riempita di fiori, poesie, regalini. Lettere d’amore”.
E l’Italia?
“Combattere a Napoli è un’esperienza unica. Napoli è la città più americana che ci sia dal punto di vista dell’entusiasmo”.
Proposte di matrimonio?
“Negli Usa mi accolgono con il coro I love you. Le ragazze mi abbracciano dicendo: voglio diventare come te”.
Il regista Cristiano Di Felice ha girato un docufilm su lei e Karim.
“Si intitola Wrestlove, l’amore combattuto. Ora è sul catalogo della piattaforma Chili. Anche se io e Karim abbiamo separato le nostre strade, il film esprime l’idea di una vita romantica, libera, appassionata. Scelta che rifarei mille volte”.
Come si vede fra dieci anni?
“Allenatrice a bordo ring. Il corpo di una donna invecchia più velocemente”.
Che rapporto ha con lui?
“Lo espongo a traumi continui, capisco che lo maltratto. Cerco di far pace attraverso lo yoga, i massaggi, la fisioterapia”.
Lei è una donna bella: questo l’aiuta?
“Il wrestling è sport e spettacolo. L’estetica conta e a me piace essere femminile. La gente però preferisce l’atleta a una modella: vogliono veder esprimere la forza sul quadrato”.
Che cosa pensano di lei al paese, in Italia?
“Mi chiamano la forestiera: sono un piccolo orgoglio locale”.
Perché il wrestling le piace così tanto?
“Perché non esistono i perdenti. E io continuo a portare in giro i miei sogni, chiusi nella valigia”.