È il 20º Slam per Novak Djokovic. Raggiunti Roger Federer e Rafa Nadal nella classifica dei più vincenti di sempre.
Ha perso il primo set e ci hanno sperato i tifosi italiani di Matteo Berrettini, in un epilogo che all’esordio sembrava impensabile. Quando è stato il momento di cambiare passo, però, il numero 1 del mondo non se lo è fatto ripetere due volte. 6-7 6-4 6-4 6-3.
Braccia al cielo, schiena a terra e ciuffo d’erba strappato e messo in bocca, ricordando gli altri 5 titoli vinti nei giardini della regina.
Ma il risultato, in partite come queste, conta fino a un certo punto. Wimbledon si gioca dal 1877, qualche anno dopo che la pallacorda, l’antenato del tennis, si manifestò per la prima volta in Inghilterra. Da lì in poi, 144 edizioni del torneo più prestigioso del circuito: mai un italiano era arrivato in finale. Nemmeno Pietrangeli e Panatta, gli unici due che, tra la fine degli anni ‘50 e quella degli anni ‘70, hanno portato in Italia un trofeo dello Slam.

Con Djokovic, oggi, era una sfida impossibile. Troppo chiedergli una vittoria contro chi sta lottando per conquistare il Grande Slam (Australian Open, Roland Garros, Wimbledon e Us Open tutti nello stesso anno). Tra i due c’è una differenza abissale, in termini di gioco ancor più che di esperienza e in situazioni del genere saper giocare i punti importanti è ciò che fa la differenza.
Di buono c’è che, dalla sua prima finale Major, Berrettini non ne esce ridimensionato. Certo, non ha giocato al massimo, ma quando si calca un palcoscenico simile rendere al massimo è un evento più unico che raro.
La pecca più grande è stata la prima di servizio, messa in campo soltanto 6 volte su 10. Troppo poco per pensare di impensierire il ribattitore più forte che abbia mai calcato un campo da tennis. Con la seconda, infatti, ha faticato parecchio: 40% di punti.
Tutto sommato, non una grande partita. Monotona, senza spunti rilevanti e con un copione già scritto in partenza cambiato solo da quel primo set vinto per miracolo dopo essere stato sotto 5-2. In ogni caso, si è scritto un pezzo di storia.

Djokovic continua il suo percorso netto senza lasciare chance agli avversari che, di fronte a lui, paiono attoniti. Gestisce le partite a suo piacimento, affronta i momenti delicati con la freddezza di chi è conscio di averne di più. Se deve vincere il punto, lo vince. Qualsiasi cosa accada.
Questo fa di lui il numero 1 del mondo e probabilmente gli annali lo ricorderanno come il giocatore tra tutti più vincente.
Continua però ad avere problemi con il pubblico, che non gli perdona una serie di atteggiamenti poco piacevoli avuti nel corso della carriera e che in ogni torneo del circuito, quando le partite iniziano a contare, gli tifa sistematicamente contro.
Questo è il suo cruccio, il gap che, in confronto a Federer e Nadal, non riuscirà mai a colmare.
Per tutto il resto, invece, Djokovic è già lì, pronto a immettersi nella corsia di sorpasso e sedersi sul trono del tennis scalzando i due rivali che da sempre gli stanno davanti.
Non il più amato, ma il più vincente. Djokovic ha costruito un dominio che faticherà a essere dimenticato.