Un altro brutto risveglio: se n’è andato anche Pablito. E con lui una fetta importante della mia gioventù.
E’ stato uno di quei giocatori che ha fatto innamorare in modo trasversale, al di là delle maglie indossate: è nel dna dei miti. E lui su quell’Olimpo c’era salito con quei sei gol segnati al Mundial con cui l’Italia aveva espugnato Spagna ’82. Come un uomo senza il prima e senza il dopo, insomma senza passato e futuro: una fama concentrata su quelle settimane spagnole.
Con la maglia azzurra aveva unito una Nazione. Mentre lo scrivo, adesso, mi rendo conto di dire qualcosa di molto retorico. Ma è così. Perché i gol, in fondo, non sono tutto. Ci sono la simpatia e la fantasia, il sorriso, il buonumore, l’ottimismo. Ho avuto la fortuna di conoscerlo e Paolorossi era così: solare e …umano. Come lo avevo sempre visto in tv.

Di quel giorno della finale, posso raccontare esattamente cosa feci. Non sono molte le giornate di cui ricordiamo i dettagli. Pomeriggio in piscina a Firenze con la fidanzata. Per il troppo sole mi venne la febbre a 39. Dopo la partita contro la Germania la febbre non c’era più: l’urlo di Tardelli (così simile a quello di Munch), il gol di Pablito e quello di Altobelli erano stati meglio di una potente tachipirina.
Erano notti magiche e ancora non lo sapevamo. Ma l’Italia intera osannò soprattutto lui, Rossi, perché… era semplicemente “un ragazzo come noi”.
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