Intanto, il nome. Sonoro, rutilante, suggestivo. Alla fantasia di un bambino, oggi cresciuto di vari decenni, pareva evocare insieme la spada di Zorro, e le truppe di Diaz che, in successione apparentemente disordinata, in realtà libera, venivano dalle pagine dell’Enciclopedia “Conoscere”. Ma, “Maradona”, stava a sé. Non riuscivo ad inquadrarlo, quel nome. Però sapeva di italiano, di familiare. Maradona. Diego Armando Maradona. E, così, scandito tutt’insieme, avrebbe seguitato ad accendere fantasie, entusiasmi, sorrisi di ammirazione, stupefatta e riconoscente. In quel bambino e in tutto il mondo.

Perché, in queste ore, tutto il mondo sta dedicando almeno un pensiero, almeno per un secondo, a quel nome, alla notizia della sua morte. Sì, certo, siamo tutti connessi. Ma credo di non osare troppo se scrivo che c’è dell’altro, in questo convergere di sentimenti, di ricordi, di emozioni.
Abbiamo ammirato il Bello, con la maiuscola. Questo è. Il Bello migliora, eleva, educa l’uomo. Ci è stato donato facile facile, dritto al cuore. Non che, per dire, Botticelli con le sue Donne primaverili e floreali, o un tramonto sul Grand Canyon, non ci arrivino, al cuore. Solo che non ci sorprendono, o non del tutto. Tutto ciò che reca o richiama un “codice”, dell’Arte o della Natura, viene preceduto da un complesso di impressioni e nozioni preliminari, sottese e diffuse che, se non frenano lo sguardo in una sorta di timore reverenziale, lo tengono comunque ad una qualche distanza: rispettosa e grata quanto si vuole, ma sempre distanza.
Ma un calcio ad un “pallone”, no. Chi non ne ha dato uno, anche una volta sola? Niente “codici”. Qui il sublime sorprende, e l’ascesa al Bello è come gratuita, fraterna: lieve ed immediata. Al cuore, direttamente. Come un sorriso di vostro figlio.
Così “Dieguito” ha regalato al mondo un “Bello per Tutti”. Basta chiudere gli occhi e abbiamo un quadro vivo. Vivo e bello anche quando era lui a perdere. La sua maglietta strappata da Claudio Gentile, non trofeo sanguinario, ma scudo preso all’avversario dopo un duello di antichi cavalieri. L’assalto di Goicoechea alla sua gamba, tibia e perone fracassati, ma solo per fare da piedistallo alla sua guarigione, al suo lungo trionfo. La squalifica per doping ad USA’94: con Blatter&C che si erano venduti coi bei soldi televisivi il “Maradona-Che-Ritorna”, lieti dello “strepitoso recupero”, e lesti a raddoppiare il loro obliquo potere, in nome della “pulizia” da quello stesso “sporco” che avevano pompato.
D’altra parte, in Italia gli abbiamo contestato una cospicua evasione fiscale, anziché considerare quanto ricevuto, non solo nei segnalati termini spirituali. E nessuno che abbia avanzato seri dubbi, sulla razionalità di leggi che, proprio agendo sulle dinamiche economiche e di produzione della ricchezza, avrebbero dovuto invertire i termini di quel presuntoso rapporto debito/credito, riconoscendo, al contrario: ti dobbiamo noi. Ma oggi lasciamo perdere simili grettezze irrazionali e semisovietiche.

Si potrebbe dire “Genio”. Solo che questa è una parola scivolosa: di fatto inventata dalla civiltà borghese, all’apogeo ottocentesco delle sue ricchezze e dei suoi traffici, per esorcizzare la distanza e la “diversità”, proprio mentre faceva mostra di venerarla. “Genio”, rileva Hannah Arendt, fu l’accorgimento con cui nei salotti del Foubourg Saint-Germaine raccontati da Proust, ci si trastullava con l’eccentrico, “l’invertito”, e di qui, “l’ebreo di talento”, il “genio”, appunto: che in quella società veniva accolto giusto perché un’eccezione: una singolare prossimità che confermava una generale alterità.
Una filigrana ostile, infatti, attraversa la vita di Maradona, accanto all’altra, del Bello e per cui molti, moltissimi, gli hanno voluto bene. La filigrana nascosta nel disgusto verso chi si vuole sia irrevocabilmente “diverso”: come uno straccione che si è autoemancipato.
Invece, Maradona aveva il talento, che, sappiamo, agisce su un piano biblico, quindi, comune, e a tutti rivolto. Il talento è certo un dono divino, ma diviene un bene solo nel suo uso umano, e se non lo si immette nella vita e nella giornata terreni, persino la radice ultramondana ne risulta rinnegata.

Perciò, piuttosto che “un genio”, pare preferibile dire che è stato un uomo di talento, splendido e maestoso talento. Rimanendo, così, sempre un uomo all inclusive: errori, sviste, ingenuità. Avere coniugato quanto di più umano esiste, l’errore, alla costante contemplazione attiva del Bello, è esattamente ciò che lo ha reso fruibile ad ogni sguardo: da quello del cd competente che sa tutto di schieramenti a tattiche, alla mamma che, pur non addentro “ai misteri della moviola”, condivide liberamente la plastica liturgia di salti e urla, esplose in ogni direzione, al sempre vario apparire di quei capolavori di bellezza popolare.
Tuttavia, dei molti quadri, delle molte “ascese al Bello” che Diego ci ha donato uno, credo, più degli altri, ne riassume senso e gloria: “La mano de Diòs”. La prodezza di un Odisseo redivivo che ricrea, non la regola per sè, ma l’azione, l’audacia: un’abilità che si fa capacità, di incunearsi nell’attimo, di coglierlo; di rischiare in un gesto tutto, la vittoria o la sconfitta, di esporsi al castigo, alla cacciata dal campo, e peggio. La Mano dell’Azteca al posto del Cavallo di Troia. Ma questo, ancora non ci permetterebbe di sapere con certezza se siamo stati di fronte ad un onesto re-artigiano, o ad un truffatore insidioso.
E il seguito del quadro a spiegarcelo: dalla metà campo argentina alla porta inglese, “El Pibe de Oro” schiera la sua forza talentuosa, il suo incantamento, la sua ascesa più riuscita e perfetta: che lo legittima, e lo giustifica nella sua apparente “anomalia”. E per questo vince.
In mezzo, otto atleti annichiliti e la conseguita eternità. Grazie.