“Perchè non lo porti allo stadio? Oggi non giocava la Juventus? Magari gli passa…”
Mia madre, avvilita per la tristezza di un bambino che neanche una giornata trascorsa a Mondello aveva scalfito, così aveva suggerito a mio padre, che provava a spiegarmi perché non eravamo potuti andare anche quel week end a Mazara, la cittadina dove ero nato e cresciuto per sei anni.
Nei primi anni Settanta, praticamente piangevo ogni domenica che non “tornavamo a casa”, dove avrei ritrovato tutti i miei cugini e i miei amici del cuore. Mia sorella, tre anni più grande di me, nella grande città, complice la passione per la danza, si era ambientata subito. Invece io ero un bimbo diventato di colpo triste. Così i miei, almeno una volta al mese si avventuravano in quel lungo tragitto, quando ancora l’autostrada Palermo-Mazara del Vallo non era completa, e con una sbuffante Renault, si passavano tutti quei paesi dell’interno del trapanese: Alcamo, Vita, Calatafimi, Salemi, la familiare Castelvetrano (paese di mamma), per arrivare dopo oltre tre ore di viaggio ad avvistare le cupole arabo-normanne di Mazara.
“Allo stadio? Ma la partita inizia tra meno di un’ora e con la Juventus i biglietti dove li trovo?”
“Amunì, che gli passa…”
“Popolari, popolari c’è!” – “Mille lire la differenza?” Chiese mio padre al bagarino che questa volta non finiva il grido usuale con appunto la differenza dal costo del biglietto comprato ai botteghini. “Milli liri? Vintimila lire e forza Palermo! Un ci pinsari, bigghietti ‘un ci ‘nnè cchiù!”.
Così mi ritrovo fuori lo stadio della Favorita, in una assolata e caldissima giornata di inizi estate, con mio padre che cerca un biglietto e che non lo trova a prezzi abbordabili neanche per la curva. Il costo non vale la pena, anche perché io non mostro neanche tanta voglia per questa mia prima volta allo stadio. Ma alla fine prova allo sportello dello stadio che sta chiudendo: è rimasto solo un biglietto, di gradinata. Costa meno del popolare del bagarino!
Io sono ancora triste, fa un caldo pazzesco e poi non sono andato mai allo stadio, pur seguendo ormai il calcio con passione per via di quella storica semifinale dei Mondiali Messicani Italia Germania 4-3, vista a tarda notte sopra le ginocchia di mio nonno mentre i miei mi avevano lasciato per mesi dai nonni materni a Castelvetrano.
La partita sta iniziando e noi siamo ancora fuori. Si sentono gli applausi e urla mentre l’altoparlante gracchia le formazioni. Juventus: Zoff, Cuccureddu… Altafini! Palermo: Girardi, Favalli…. Magistrelli!
C’è una folla che non riusciamo ad entrare nella gradinata. Non è ancora lo stadio col secondo anello inaugurato ai mondiali del 1990, e con i posti tutti numerati. Invece è proprio una gradinata di enormi lastroni costruiti dal Fascismo negli anni Trenta. In ogni scalone, così largo, quel giorno ci staranno in piedi fino a tre file di persone, con bambini messi tutti sulle spalle dei padri o dei fratelli più grandi, altrimenti non vedrebbero nulla. Ma noi non riusciamo proprio ad entrare! Siamo bloccati davanti alla bocca d’accesso centrale, non c’è verso, troppa gente, non si passa più. Così mio padre si avvicina il più possibile mi carica e mi fa sedere sulle spalle. Lui non vede praticamente nulla ma ecco che mi si apre di colpo davanti il manto verde con dieci sagome bianconere che sembrano danzare mentre fanno girare abilmente il pallone e dieci maglie rosa che corrono corrono come impazzite e che sembrano appunto che prima o poi si sfiancheranno sfinite.
Quelle maglie rosa, di cui riesco persino a vedere il bagnato del sudore, continueranno a correre per tutta la partita, due tre volte più di quelle zebrate. Anche a 9 anni capisco come i piedi dei giocatori bianconeri siano più tecnici e insomma quei giocatori ospiti sono più bravi, però il cuore di quelli in rosa quel giorno, forse nel vedere quello stadio della Favorita stipato fino al record di 40 mila – senza il secondo anello e che si chiamerà poi Renzo Barbera in onore del mai dimenticato presidente gentiluomo degli anni settanta – quel giorno doveva battere di più perché continueranno a correre correre più forte, più veloci e vincendo tutti i contrasti sospinti dai boati della folla.
Finito primo tempo, la Juve è più forte ma il Palermo più veloce. “Ghiaccioli all’arancio, ‘u sapuri du gol”. Mio padre me ne compra uno, afferrandolo miracolosamente mentre glielo lanciano da sotto e lui a sua volta con la precisione del campione di tiro a piattello gli lancia le monetine. Mi fa: succhialo forte quel ghiacciolo pensando al gol e vedrai che il Palermo segna.
Inizia il secondo tempo ed è ancora la Juve a fare tutto quello che vuole con la palla, ma le maglie rosa nero sono come schegge, almeno due volte più veloci di quelle bianconere e così succede il miracolo e … Goooolll. Due volte goolll!! Lo stadio esplode e mio padre con me sulle spalle salta di gioia rischiando di farmi sbattere la testa sul gradone di cemento sopra la porta d’entrata dove siamo rimasti per tutta la partita.
Il Palermo (che allora era in B) batte la Juventus in Coppa Italia e poi arriva in finale a Roma, dove perderà ai rigori in una memorabile partita contro il Bologna. Vinceva fino a pochi minuti dalla fine per un gol di Magistrelli. Ma poi l’arbitro diede un rigore al novantesimo per il pareggio di Savoldi. Allo stadio della Favorita, per anni sovrastava una grande scritta “Bologna ladro, Gonella cornuto”. Il secondo a cui si auguravano dispiaceri dalla moglie, era l’arbitro.
Quella prima volta allo stadio con mio padre, mi presi la malattia del tifo rosanero e da allora non chiesi più di andare ogni domenica a Mazara e grazie a quelle maglie zuppe di sudore che batterono la Juventus, Palermo divenne non solo la squadra ma anche la mia città.
Quando da New York ho sentito la notizia della sentenza di condanna al Palermo alla retrocessione in C e che la federazione accelerava i play off e addirittura annullava i playout senza aspettare il ricorso della nuova società che ha appena comprato la squadra, senza mostrare alcun riguardo per la passione della tifoseria della sesta città d’Italia, mi è subito tornata in mente quella afosa prima volta con mio padre alla Favorita e quel ghiacciolo all’arancio prima del gol. E ho pensato cosa sarebbe successo a me, bimbo di nemmeno dieci anni, se dopo aver visto quella partita, il giorno dopo mio padre mi avesse detto che tutto non valeva nulla, che purtroppo il Palermo perdeva a tavolino. Che alla fine quelle corse più veloci e quel sudore contro i più forti, non servivano. In Sicilia si perde, e basta. Sei siciliano, e vuoi tifare alla squadra della tua città? Ti devi abituare a perdere. Altrimenti tifa Juve, Milan o Inter. Se non ti rassegni, allora la vittoria, anche quando la senti che sta per arrivare, ti sarà annullata. E ‘un ci pinsari cchiù. Ecco ho pensato a tutto questo.
Ma quante migliaia di bambini ci saranno a Palermo e in Sicilia che da tempo hanno smesso di credere che invece quando la passione è più forte, e anche quando magari si hanno meno risorse o si parte svantaggiati, ma si ha più cuore e tanta voglia di farcela, si possa ancora vincere?
La mafia dopotutto non è non farti credere più questo? Convincere tutti, fin da quando si è piccoli, a essere dei perdenti, che è inutile che ci metti passione e coraggio, tanto “ni pigghiamo tuttu nuautri” (ci prendiamo tutto noi).
La mafia è soprattutto questo, inculcare a un popolo che è meglio sentirsi perdenti, così non si illude più nessuno. E se per caso qualcosa sta per farlo sentire meglio, questo popolo, che so magari con una squadra che sta per tornare in Serie A, allora meglio che si dia subito una calmata, in serie C.
L’ignoranza rende possibile lo strapotere della mafia in Sicilia, perché i siciliani la subiscono pensando che sia il loro destino. E si dimenticano invece che quando la mafia non c’era (no, non ha secoli e secoli, ma più o meno 200 anni d’età), Palermo e la Sicilia erano state pure “Stupor Mundi”.
Allora propongo, qui da New York, a tutti i siciliani che volessero trovare una soluzione orgogliosa a questa vicenda che secondo chi scrive non colpisce solo i tifosi rosanero ma l’isola intera con il popolo dei siciliani sparsi nel mondo, di smettere di ignorare e riacquistare la propria storia, i propri diritti, il proprio destino. In Sicilia, quando ancora la Seconda Guerra Mondiale non era ultimata, ci fu chi sacrificò anche la vita affinché, nella nuova Italia democratica che nasceva libera dal Fascismo, almeno fosse concesso ai siciliani uno statuto speciale. E alla fine fu così. E in questo Statuto di autonomia (che proprio oggi compie 73 anni), mai messo in atto nello spirito di chi lo volle e lo scrisse, per esempio si stabilisce che nello sport, le squadre siciliane possano essere riconosciute a livello internazionale gareggiando con una propria bandiera. Insomma, la Sicilia, se solo lo volesse, potrebbe far sfilare con la bandiera giallo rossa della Trinacria i proprio atleti all’inaugurazione delle Olimpiadi!
Allora, perché il Palermo dovrebbe andare in serie C se potrebbe giocare nella A della FGCSicilia, e vincere tanti scudetti, come anche il Catania, il Messina, il Siracusa, il Trapani, l’Akragas? Non avviene così in Scozia? O Galles? Perché non fare subito una lega calcio della Sicilia iscritta alle maggiori competizioni internazionali, per la Champions e anche per i Mondiali?
Immaginate… Certo spesso verrà eliminato ai primi turni il Palermo (o il Catania, o il Messina…) ma prima o poi ci sarà anche quella volta che migliaia di bambini sulle spalle dei padri vedranno le maglie rosanero eliminare prima l’Inter, poi il Milan, persino la Juventus, fino alla finale col Real Madrid. A quel punto quella partita si potrà vincere come anche perdere, tanto ormai la mentalità dei perdenti imposta dalla mafia e da chi la vuole così forte in Sicilia, sarebbe definitivamente sconfitta.
Sarebbe il momento giusto per farlo. Basta con ‘sti vinti voluti dalla mafia, tutta la Sicilia può sentirsi riscattata partendo dallo Sport. Se l’ingiustizia nei confronti del Palermo fosse confermata, non ci sarebbe migliore momento per agire. Perché? Ma lo chiedete pure? Provate a immaginare, una domenica assolata, quando anche Sergiuzzu Mattarella, col fratello Piersanti, andò una prima volta allo stadio. Certo, probabilmente già sedeva in tribuna centrale riservata, ma quel ghiacciolo all’arancio avrà avuto lo stesso “sapuri du gol” anche per lui.