Vanno alla finale dell’ottava Coppa del Mondo di Rugby Nuova Zelanda e Australia, “Kiwis” e “Wallabies”, entrambe le Nazionali vincitrici di due titoli mondiali ciascuna: gli All Blacks nel 1987 e nel 2011, i “Kangaroos” nel 1991 e nel 1999: il Sudafrica l’altra nazione che ha centrato la grande, doppia vittoria, nel 1995 e nel 2007.
Arrivano al grande appuntamento di sabato 29 ottobre nello stadio di Twickenham, Londra, le Nazionali che forse esprimono il miglior Rugby, la più alta espressione del Rugby sotto ogni aspetto: sotto quello tecnico, quello tattico, quello atletico; una ‘summa’ che lascia incantati, e dinanzi alla quale non possiamo non inchinarci se pensiamo che una partita di Pallaovale dura ben 80 minuti, e che nella Coppa del Mondo come nella Serie ‘B’ italiana o nella Terza Divisione francese, si tratta di ottanta minuti di “guerra”, di ‘conflitto’ aspro, incessante, in cui la Ragione tenta di superare la Materia e ad alti livelli ci riesce sempre: l’antico concetto inglese di “Mind over Matter”.
I celebri, leggendari All Blacks sabato scorso hanno superato (20 a 18) l’antico “nemico”, il Sudafrica; oggi l’Australia ha piegato l’Argentina, 29 a 15. Semifinali, quindi, che hanno riproposto la supremazia dell’Emisfero Sud sull’Emisfero Nord. La supremazia del rigore tecnico, del continuo miglioramento tecnico, e – per quel che riguarda soprattutto neozelandesi e australiani – del ‘casual approach’, dell’atteggiamento a prima vista superficiale, leggero, ma che, all’atto pratico, bene difende la mente dei giocatori dalla cerebralità eccessiva, da ansie e tensioni che ormai sono tipiche di inglesi, francesi, irlandesi, e di noi italiani stessi. Un Mondiale, perciò, anche “psicanalitico”, “antropologico”, a dimostrazione di due società assai diverse l’una dall’altra: l’australo-neozelandese che procede in scioltezza, con disinvoltura, nel credo della libertà individuale essa posta al servizio della collettività, e quella europea, segnatamente inglese e francese, che scivola nell’involuzione, si lascia appesantire da dogmi e luoghi comuni, soffre tuttora di complessi di superiorità e di sovente scade nel velleitarismo.
All Blacks – Sudafrica, Argentina – Australia. Bella in termini estetici non è stata la contesa fra neozelandesi e sudafricani. S’è vista – e non per la prima volta nella Storia delle “battaglie” fra le due Nazionali – la “guerra d’attrito”, vale a dire il gioco chiuso, affidato in prevalenza ai ‘pacchetti di mischia, anche se i “Kiwis” in più occasioni hanno saputo impiegare con successo la “cavalleria leggera”, i tre-quarti, i giocatori estrosi, fantasiosi, splendidi nello scatto, nell’affondo, nel cambiamento di direzione.
Si riproponeva anche ieri – e stavolta nel cuore di Londra – “The Boer War”, la guerra boera a cavallo dell’Otto e del Novecento, in terra sudafricana… Bisavoli e trisavoli di giocatori ieri in campo, dovevano averla di certo combattuta su barricate opposte: quella “afrikaan” rappresentata appunto dai boeri, quella dell’Impero Britannico che sulla linea del fuoco mandò difatti neozelandesi e anche un bel po’ di australiani (si veda, o si riveda, il magnifico film “Breaker Morant”, uscito una trentina di anni fa). La verità è che queste genti nulla dimenticano: per loro la tradizione è sacra, la tradizione dà un maggior senso alla vita; essa nel Veldt (l’entroterra) sudafricano e nelle baie neozelandesi onora coloro i quali più non sono su questa Terra; onora, sì, i Padri.
Bastava osservarli bene sotto la pioggia torrentizia i volti di sudafricani e neozelandesi ieri a Twickenham: volti assai espressivi, tirati, tirati nella suprema tensione agonistica e quindi tensione di spirito ‘nazionale’, espressione di rimembranze storiche, di rimembranze familiari! Il Rugby è “anche” questo. Non si gioca a Rugby se nello sforzo continuo, massiccio, non ci si ispira a un ideale, a figure ben precise, a quanti ci hanno preceduto e dei quali abbiamo lo stesso sangue. Si raccoglie un esempio, si fa tesoro d’un grande lascito morale, spirituale.
“Giganti” i neozelandesi Reade, Conrad Smith, Carter, Barrett, Whitelock, Kerr-Barlow, Milner-Skudder; e giganti i sudafricani Du Preez, de Jager, Strauss, Du Plessis, Pollard, Lambie. Gli uni e gli altri si sono ancora una volta superati, ancora una volta tutto di se stessi hanno dato sia in termini tecnici che agonistici. Hanno perso, appunto, gli “Springboks”; i sudafricani che hanno imposto “la guerra di trincea” e proprio sul loro stesso terreno sono stati battuti dagli All Blacks, abilissimi nel costruire in almeno cinque occasioni il “gioco al largo”, vale a dire il gioco sulle ali attente, tempestive, saettanti.
Così, nella finale di sabato prossimo la Nuova Zelanda affronterà l’Australia. Un’Australia che oggi ha battuto con perentorietà, ma non ha travolto, non ha umiliato un’Argentina reduce dal trionfo nei quarti di finale sulla quotatissima Irlanda, campione del ‘Sei Nazioni’ 2014 e 2015.
L’Argentina. Squadra di elevato valore sia tecnico che agonistico. L’Argentina “passionale”, legata come per incanto al gioco chiuso, al gioco affidato agli uomini della “mischia”; alle testuggini, agli arieti. Ma ugualmente brillante nel gioco aperto, nella “danza”, nel “balletto” dei tre-quarti. L’Argentina giunta terza ai Mondiali del 2007 in Francia, e capace di battere in due partite la Francia stessa, una delle favorite del torneo di quell’anno.
Ma perché oggi i Biancocelesti sono stati battuti da un’Australia comunque fortissima sia nella ‘mischia’ che soprattutto nel gioco aperto, coi numerosi duecentisti e quattrocentisti (Hooper, Pocock, Ashley-Cooper, Mitchell) che si ritrova? L’emotività… L’emotività ha giocato un gran brutto scherzo agli argentini. Ha offuscato, appannato, piegato una compagine altrimenti eccellente in ogni reparto. Una compagine illuminata da giocatori d’origine italiana, Senatore, Petti, Lavagnini, Matera, Cubelli, Alemanno. Tutta la sua classe, tutta la sua immaginazione, tutta la sua potenza come annullate, sissignori, dall’emozione, dall’emozione di trovarsi ancora una volta, come, appunto, nel 2007, a un passo dalla finale della Coppa del Mondo. Una squadra che presto ha dovuto fare a meno di grossi calibri quali il capitano e ‘tallonatore’ Creevy, l’ala Imhof, il tre-quarti centro Hernandez, usciti per infortunio.
Presi uno per uno, i biancocelesti non sono inferiori agli australiani; anzi, la loro prima linea (quella che guida il ‘pacchetto di mischia: ‘piloni’ e ‘tallonatore’) è forse la più efficiente al mondo per tecnica, senso geometrico, scaltrezza; addirittura superiore al “front row” neozelandese. Eppure, sì, oggi l’emozione ha attanagliato e indebolito questa grande formazione, questi quindici uomini che a una manciata di minuti dalla fine della partita, sul 29 a 15 per gli “Aussies”, hanno lanciato attacchi a ondate successive, con carattere, con orgoglio, con fierezza; col temperamento dei rugbisti veri che mai sono domi, mai. Tanto da meritare al termine le strette di mano e gli abbracci spontanei, ripetuti, perfino affettuosi, camerateschi dell’avversario profondamente impressionato dal loro valore. Significativi gli sguardi d’ammirazione rivolti agli argentini da Hooper, Pocock, Genia, Foley, Ashley-Cooper, gli artefici dello splendido successo ‘aussie’.
Emblematiche le lacrime versate a fine partita da Daniel Hourcade, commissario tecnico biancoceleste, classe 1958, in gioventù mediano di mischia. E’ stato il pianto del capo il quale ha compreso il dramma vissuto sul campo dai suoi giocatori, ai quali nulla ha da rimproverare. La sofferenza del comandante il quale tuttavia sa come agire contro l’emotività che in giornate “fatali” può colpire i propri uomini. Sa che dalla sconfitta contro l’Australia possono nascere altre vittorie, altre grandi vittorie.
Ecco che cos’è il Rugby.