E' ritmo. E’ ordine. E’ armonia. Levità. Energia. E’ musica. La marcia: Annarita Sidoti.
Guardatele: lei e la sua marcia. Guardate quei piedini rapidi: il tallone destro inghiottito dall’avampiede sinistro e viceversa, ad offrire allo sguardo lo spettacolo del movimento: e del governo sul movimento.
Guardate, e vedrete la rapidità di un battito d’ali che, radente al suolo, domina la spinta verso l’alto e la trasforma in velocità rettilinea; tendini d’Achille e polpacci obbediscono, e avviano la postura, ergono la sagoma; i quadricipiti femorali ricevono le vibrazioni che, filtrate da rotule e menischi, echeggiano il vigore di quella biga: che giù, in prima fila, è inarrestabile, vorace d’asfalto, di tartan, di polvere, e di tutto quanto osi starle di fronte.
Sono le onde dell’energia, che avvolgono il bacino e si addolciscono fra le ondulazioni dell’addome e del sacro, con i fianchi a segnare un orizzonte mobile e ipnotico per uno sguardo ormai magnetizzato. Ecco allora le braccia, che sicure, fanno da controcanto: il sinistro avanti, la gamba destra è indietro; il destro indietro, la gamba sinistra è avanti. Come può essere il volto di un simile corpo, gli occhi di un’atleta alta un metro e cinquanta e leggera di quarantacinque chili?
Sono gli occhi di chi parla col suo corpo, che lo ascolta senza mai stancarsi, che lo guarda per vie interne, mentre le pupille s’inondano del Tirreno, e delle Eolie, e della Rocca di Tindari, di Ustica: fra il verde macchiaiolo del Monte Meliuso e il turchese marino che si infuoca al tramonto, e, sanguigno, la rapisce con onirico salto sulla fluttuante zattera di Ulisse.
Perchè, quando marcia, Annarita, la donna che farà tre figli, l’atleta che attraverserà sei campionati del mondo, vincendone uno; tre olimpiadi; campionati europei, vincendone due; che da Gioiosa Marea è partita e a Gioiosa Marea è tornata, ha due visioni: una è per il “sereno…che torna giù da’ colli e da’ tetti”; l’altra è per il suo padre-corpo, il suo amico-corpo, il suo compagno-corpo, il suo figlio-corpo. E le due visioni si contemplano.
All’alba, primo allenamento. Corsa leggera, lui le dà il buongiorno, fedele, silenzioso: pronti? Pronti. E si comincia: accelerazioni, allunghi, salite; il cuore tuona impavido e aduna la compagnia: fibre, muscoli, tessuti; breve recupero, si rallenta e le labbra non si scompongono a raccattare, disperate, ossigeno e frescura; ma appena si schiudono, composte e caste, a regolare quell’intervallo, ad impreziosire quel primo segno di rispetto, che esige senza abusare. E si ricomincia, mentre la luce penetra in ogni poro e l’umidore salino sferza le narici già dilatate dalla prima frustata. E poi così, avanti, accumulando paziente il patrimonio di chilometri che misura e ispessisce, ogni minuto di più, quel rapporto cosmico e segreto.
La moralità dell’atletica è la moralità di chi ha scoperto, riscoperto, la ricchezza della semplicità originaria: anima e corpo (Psichè: soffio, che anima, anima; Stoichèion: elemento, quindi materia, quindi corpo, nella lingua di Omero).
Così, l’allenamento, il sudore, la stanchezza, il riposo, il tempo, lo spazio, e il tempo che misura lo spazio percorso, e lo spazio che misura il tempo impiegato, non sono un’effimera “prestazione”, ma la durevole testimonianza di questa intesa antica: che, per quante ingegnose e utili escogitazioni, scoperte, invenzioni, possano costellare il cammino umano, rimane lì, sicura del suo carattere fondativo. Anima e corpo.
E’ un’intesa che stringe a sé ogni attimo, ogni giorno; e la sera, quando, trascorse le ore intermedie in cui Annarita si restituisce agli altri: che le vogliono bene, che la sostengono, che urlano quando lei vince, che la guardarono trepida quando lei, a dodici anni, scoprì che, nella vita, nella sua vita, avrebbe marciato, e indossò la sua prima canotta, il suo primo pettorale per la Tyndaris Pattese; la sera, quando torna a sé e al suo corpo, per il secondo allenamento, tutto il bene che il mondo le ha dato si ricompone muto e s’incanala, di nuovo, come ieri, come domani, come sempre, in quella sinfonia, in quell’armonia profonda, in quel ritmo vitale e incessante. E su e giù, e su e giù.
Non importa se, da qui, “lo Scricciolo d’Oro”, come il grande corregionale Candido Cannavò l’aveva chiamata, se ne sia andata presto, a quarantacinque anni. Non ha vinto il male: ha vinto lei.
Chi ha espresso la grandezza della vita, nobilitando la fatica, incorniciandola nel sorriso musicale di una madre, moglie e marciatrice, ha un respiro cosmico, ha il passo eterno.