Come Araba Fenice che dalle ceneri risorge. Così l’Italia sabato scorso contro la Scozia nella terza giornata del torneo di rugby Sei Nazioni (Galles, Francia, Inghilterra, Irlanda, Italia, Scozia). Un’Italia arrivata a Edimburgo dopo che le erano passati sopra due rulli compressori chiamati Irlanda (26 a 3 per i Verdi, allo stadio Olimpico di Roma il 7 marzo) e Inghilterra (47 a 17 per i Bianchi, allo stadio di Twickenham, Londra, il 14 marzo).
Nelle condizioni mentali in cui ci si trova dopo un paio di batoste di questa portata, si può avere dubbi su noi stessi: ci si chiede se siamo all’altezza del compito assegnatoci. Si può anche dubitare di chi ci guida, vale a dire dell’allenatore. Nel frattempo ci sfiorano dubbi sulle capacità di uno o due compagni, se non di più. Ci s’interroga sul “perché”… Perché l’Italia che nel Sei Nazioni di due anni fa battè con autorità e brillantezza Francia e Irlanda e a Londra mancò d’un soffio la vittoria contro l’Inghilterra, ora ha smarrito sicurezza, brio, smalto? Perché ora s’inceppa, e anche in modo piuttosto imbarazzante, la compagine che sapeva svolgere in gran velocità le manovre anche quelle più intricate, più “sofisticate” e in difesa risultava trionfalmente impenetrabile?
E ora c’è da affrontare la Scozia… La Scozia dalla quale fummo sconfitti nelle ultime due edizioni del Sei Nazioni. Mancano titolari, “distrutti” nelle collisioni con Irlanda e Inghilterra. Mancano giocatori di gran valore, basti fare i nomi di Martin Castrogiovanni, Alessandro Zanni, Michele Campagnaro, Andrea Masi. I primi due giocano in mischia, sono quelli da trincea (ma non solo da trincea), gli assi del gioco “chiuso”; spesso oscuro. I secondi due giocano nel ruolo di tre-quarti, vale a dire rappresentano la cavalleria leggera, sono perciò scattanti, spettacolare la loro progressione; hanno estro e inventiva da vendere. In sede di ricostruzione può sembrare arduo rimpiazzarli.
“Con quella faccia un po’ così, quell’espressione un po’ così che abbiamo noi, che abbiamo visto Genova…”, cantavano anni e anni fa Bruno Lauzi e Paolo Conte. E con “quella faccia un po’ così, quell’espressione un po’ così”, nostri Nazionali sono tornati a Edimburgo, allo stadio di Murrayfield; altri ancora, i due tre-quarti Michele Visentin e Enrico Bacchin non v’erano mai stati… Anzi, fino a una settimana fa nemmeno se l’aspettavano che il CT, il francese Jacques Brunel, li avrebbe, non solo convocati, ma schierati come titolari nella battaglia cruciale contro la Scozia.
S’è capito che nell’emergenza creatasi coi rovesci contro Irlanda e Inghilterra, gli Azzurri si trovavano dinanzi a se stessi, prima ancora che davanti all’avversario, all’allenatore, ai giornalisti, al pubblico. Quasi come un Paese in cui s’è persa la direzione, come un Paese che più non sa esprimere ciò che di alto, di pregevole, d’inconfondibile aveva un tempo espresso; quasi come un popolo prima sicuro di sé, audace, e ora incerto, confuso; a tratti addirittura fiacco, senza più idee. Senza più lspirazione!
I rugbisti sono gente “strana”… Conoscono e amano la disciplina, sanno che senza di essa non si va da nessuna parte: sanno che possono non bastare potenza atletica, resistenza fisica, fantasia, classe. Può succedere che un bel giorno ritengano che ora l’allenatore fa troppi errori, non ne indovina insomma più una, si registra quindi un problema, un ‘grosso’ problema. Al coach tutto questo non glielo faranno per nulla notare; sono troppo educati e sensibili per capire quanto umiliante sia perdere la faccia. In campo faranno quindi da sé, ci penserà il Capitano a indicare la via, a suonare la carica, a condurre la brigata al riscatto!
Jacques Brunel è un tecnico di grande bravura. È uomo sincero, adamantino. Si sente “italiano” fin dal giorno in cui, nell’autunno 2011, assunse la guida degli Azzurri. È probabile che senza di lui l’Italia, nel “radioso” 2013, Francia e Irlanda non le avrebbe battute, no. La nostra è solo una sensazione, la sensazione di chi ha giocato a rugby per tutta la vita, ma qualcosa dev’essere cambiato nella nostra Nazionale, lo sentiamo nell’aria… Lo s’intuisce. Mai sapremo di che cosa si tratta: i rugbisti nulla mettono in piazza, tutto resta custodito nello spogliatoio. E’ uno dei principi che governano questo sport a ogni latitudine. Uno sport che t’insegna a essere onesto con te stesso, onesto coi compagni; che t’insegna a reagire: ti fa capire la “sacralità” della reazione fiera, orgogliosa, comunque composta.
Scozia-Italia sabato 28 febbraio 2015 a Murrayfield. Lo stadio sul cui ingresso principale è affissa una lapide scura, in ferro battuto, imponente: vi sono scolpiti i nomi dei giocatori scozzesi caduti nella Prima Guerra Mondiale; e sono tanti, tantissimi: più di un centinaio. C’è sempre qualcosa di speciale in ogni confronto Scozia-Italia o Italia-Scozia. Non lo si può spiegare. Lo si può soltanto avvertire.
Due partite sono state disputate sabato a Edimburgo… La prima, della durata di 10 minuti; la seconda di 70: dopo 10 minuti gli Azzurri sono sotto di 10 punti, 10 a 0 per gli scozzesi che hanno piazzato fra i pali un calcio di punizione e sono andati in meta grazie all’intercetto d’un nostro passaggio. La fine della Scozia, come per un molto beffardo gioco imbastito da Dei capricciosi, comincia proprio dalla meta realizzata da Bennett: nel volgere d’un minuto o due va in scena un’altra Italia. Nella crisi che la attanaglia dall’autunno dello scorso anno, spinta sull’orlo dell’abisso, inchiodata nel mistero del suo sgretolamento, l’Italia cambia registro, cambia passo: smette di tirar di fioretto, impone la “guerra”, impone il gioco a brutto muso: i tre-quarti ora sembrano uomini della mischia, gli uomini della mischia paiono tre-quarti. Si va compiendo un’alchimia, l’alchimia rugbistica la cui origine reca un che d’inesplicabile, oseremmo dire di magico, sissignori. È un’Italia che più non inciampa, più non perde il bandolo della matassa (lo fa perdere alla Scozia!), più non si smarrisce. È una compagine che vuole la “battaglia campale”, che ripropone un rugby antico, quello d’attrito, dell’attrito incessante che infiamma, esalta il giocatore, riempie di dubbi l’avversario. È un’Italia che va in meta tre volte, ma non ci va come ci andava nel 2013, e vale a dire con la manovra sottile, sì, “sofisticata”: ora ci va con prepotenza. Come si dice nell’ambiente della pallaovale, “con ignoranza”!
Prima è Furno, uno della mischia, a irrompere in meta; quindi è Venditti, tre-quarti, a segnare come segna un “mischiarolo”: con furia, con rabbia (agonistiche). La terza meta è “meta tecnica” e arriva con l’ennesimo assalto in massa, a dritto, a testuggine, con imperiosità, e coi tre-quarti stessi che vanno a infilarsi nel gioco “chiuso”. La meta tecnica viene assegnata quando la squadra in difesa impedisce la segnatura all’avversario, ma la impedisce con infrazioni. In svantaggio fino a un minuto dal termine, gli uomini di Capitan Parisse, dell’inesauribile, imponente Parisse, trionfano così nel suggestivo stadio di Murrayfield: 22 a 19, e punteggio anche un poco stretto per l’Italia.
Sabato a Edimburgo gli Azzurri hanno dato un esempio. L’esempio di dove si può arrivare, che cosa di significativo si può realizzare se non ci si riduce a cercare scorciatoie, ma ci s’incammina sulla via più faticosa, sorridiamo ai sacrifici che imponiamo a noi stessi, diventiamo quindi ancor più maturi, siamo davvero tutti uguali. Siamo un cuore solo, una volontà sola.
Potete vedere tutta la partita nel video qui sotto:
https://youtube.com/watch?v=kXHPT2wbSgQ