In poche ore divenne il “dentista” più famoso d’Italia (pur essendo in realtà un insegnante di ginnastica) e il suo nome tristemente familiare tra il popolo dei tifosi azzurri. Ma Pak Doo Ik non aveva rubato nulla, nella sfida mondiale che vide contrapporsi una quotata Italia all’esordiente Corea del Nord, nel Campionato del '66.
Piuttosto, il piccolo giocatore coreano si rese protagonista di un saccheggio psicologico ai danni della Nazionale, arrivata in Inghilterra con i favori dei pronostici e un ruolino di marcia davvero impressionante (3-0 all’Argentina, 5-0 al Messico, 6-1 alla Bulgaria nonché 17 vittorie e 6 pareggi nelle gare di qualificazione). Ma la stella azzurra iniziò a balbettare sin dalla seconda partita, dopo quella d’esordio con il Cile (sconfitto 2-0). Sconfitta dall’URSS, l’Italia ripose nello scontro con l’esordiente Corea tutta la sua fiducia per il passaggio del turno. E i nomi schierati in campo, nella sfida di Middlesbrough sono davvero altisonanti. In una nazionale scevra da giocatori oriundi, brillavano Rivera, Bulgarelli, Facchetti, Albertosi, Mazzola, Burgnich, Meroni, Salvadore, ma non la fortuna, che volse le spalle e chiuse le porte di Wembley. La sconfitta non rimase fine a se stessa; non in un paese troppo impegnato a esaltare le gesta della squadra nazionale. Processati sportivamente e umiliati dai tifosi gli italiani rientrano in Italia per dare inizio a una nuova stagione, che da lì a poco sarebbe iniziata con la chiusura definitiva agli stranieri. Iniziavano gli anni “veri” dell’autarchia sportiva e il ricordo di talenti dalla doppia nazionalità entrò nel dimenticatoio.
Furono anni anche felici, quelli tra il '66 e il '78. L’Italia vinse un Europeo nel ‘68 con la squadra che poi avrebbe rivaleggiato nell’affascinante Mondiale di Mexico 70. E i vari Riva, Rivera e Mazzola, Domenghini, Anastasi, Causio, Zoff e Paolo Rossi avrebbero man mano offuscato i ricordi di un calcio dal sapore sudamericano.
Le vicende del '74, con l’eliminazione dell’Italia per opera della Polonia, portarono però alla ribalta un giocatore destinato a lasciare il segno anche nel malconcio calcio americano: Giorgio Chinaglia. Il centravanti simbolo della Lazio, infatti, dopo essersi presentato al mondo televisivo con il suo “vaff……” diretto a Valcareggi, e dopo aver regalato un meritatissimo scudetto alla squadra allenata da Maestrelli, lasciò la casacca biancoceleste a poche giornate dalla fine del campionato del ‘76. Fu un brutto addio, perché la Lazio navigava in cattive acque, e la sua partenza alla volta di New York, venne vista come una fuga vera e propria. Ma nella metropoli americana c’era la moglie Connie ad attenderlo e l’ingaggio del Cosmos, squadra specializzata nel recuperare le “vecchie” glorie della scena mondiale. Giorgio Chinaglia arrivò in una squadra che si era già fregiata dei funambolismi di Pelé, anche lui all’ultima spiaggia agonistica, ma portò con sé l’energia di un calciatore ancora in pieno vigore. E lasciò decisamente il segno, tra i prati sintetici del campionati di soccer e i duelli con Beckenbauer e Moore.
La speranza di portare più pubblico negli stadi americani rimase purtroppo soltanto tale, ma questo non impedì al campione italiano di vincere i titoli di capocannoniere. Anzi. Nella Hall of Fame del soccer americano, il suo nome figura decisamente in vetta: 193 gol in 213 partite del campionato regolare; 50 gol nelle 43 partite dei playoff. E nel 1980, 18 gol in sette partite, e ben sette reti in una sola partita (il Tulsa). Un ruolino invidiabile per gli otto anni trascorsi (dal ‘76 all’'83) nella città americana.
Giorgio Chinaglia rappresenta ancora oggi il simbolo della nostra “emigrazione” calcistica negli Stati Uniti. Nato a Massa, il campione ha avuto tra l’altro anche un’esperienza giovanile nel Galles, e rappresenta a tutti gli effetti l’antesignano dell’attuale tendenza italiana a giocare nei campionati anglosassoni.
Fu quindi un vero e proprio precursore della presenza italiana nei campi di soccer. Ma, tra Brasile, Australia, Messico e Canada, tra il '76 e la fine del Ventesimo secolo furono decine i nostri connazionali baciati dal contratto stellare fuori dai confini nazionali. E nel viaggio verso la sponda americana aprì la danza Marino Perani, che il Toronto Metros Croatia volle tra le sue file, per allietare la numerosa comunità italo-canadese.
Insieme a Chinaglia inoltre arrivò tra i prati del Giants Stadium anche un altro idolo laziale caduto in disgrazia: Giuseppe Wilson. A lui toccò il compito di rinverdire, nelle partite del soccer, il derby romano affrontando un attaccante che aveva trascinato in alto i colori della Roma: Pierino Prati. La punta era stata chiamata nella città di Rochester dai Lancers e contribuì a portare in terra americana un po’ dell’antica rivalità capitolina.
Ma il vero pezzo da novanta sarebbe sbarcato sulle rive dei Grandi Laghi nel 1983, anno di addio da parte di Chinaglia al calcio giocato. Per i Toronto Blizzard fu infatti ingaggiato – dopo la fortunata parentesi di Francesco Morini, grandissimo difensore bianconero – il grande Roberto Bettega, attaccante e leader indiscusso di una Juventus piglia tutto e grande protagonista dei Mondiali del ‘78 in Argentina. Il futuro dirigente delle zebre torinesi rimase solo due anni nella metropoli canadese e si confrontò da avversario con l’amico Oscar Damiani, ingaggiato dal Cosmos orfano di Giorgione. Terminata la parentesi degli anni '80, gli italiani ripresero a calcare il suolo statunitense sul finire degli anni ‘90 e dopo i mondiali di calcio disputati sul suolo americano. Nomi quali Roberto Donadoni (giocò con il New York Metrostars per due stagioni, dal ‘96 al ‘97), Giuseppe Galderisi (ingaggiato dal New England Revolution e dal Tampa Bay Mutiny) e Walter Zenga (portiere per i New England Revolution nel ‘97) completano un quadro che vede anche nomi di meteore quali Alessandro Abbondanza (Toronto, ‘79), Paolo Cimpiel (Toronto Metros Croatia, ‘76) e Nicola Caricola (New York Metrostars, ‘96) e che annovera nel campionato messicano personaggi quali Pietro Maiellaro (ingaggiato dal Monterrey nel campionato 1995-96) e Marco Rossi (acquistato dall’América di Città del México,1995-96) e Angelo Bellotto (che ha giocato in Venezuela). Una colonia non troppo folta, quella degli emigranti di lusso, ma che si è arricchita anche della presenza tricolore nel lontano Giappone (Daniele Massaro nel Shimizu S. Pulse e Salvatore Schillaci nel Jubilo Iwata), per non citare la numerosissima schiera di calciatori accasati in Europa. E che nei Mondiali, ha visto anche la presenza di un’italiano d’Australia: Cristian Vieri.
È stato lui il rappresentante degli italiani nel mondo, nella selezione azzurra del 2002. La sua storia si dipana tra Italia e Australia, dove arrivò da bambino al seguito del padre Roberto, ex giocatore di Sampdoria, Juventus, Roma e Bologna e acquistato dal Marconi Sidney, la squadra simbolo della comunità italiana d’Australia.
Vieri iniziò proprio nel Marconi la sua avventura calcistica, con il ruolo di terzino sinistro, per poi continuare la propria crescita professionale nelle squadre della toscana. Divenuto presto il “giramondo” del calcio italiano, Vieri oggi raccoglie le soddisfazioni delle sue tante esperienze e sarà uno dei paladini azzurri in Estremo oriente.
Gli ultimi anni hanno visto aumentare nettamente il tasso di “emigrazione” dei professionisti italiani del pallone. Dopo la vittoria nel Mondiale del 2006, diversi protagonisti hanno vestito le maglie di club stranieri. Fabio Grosso, eroe della sfida con la Germania e autore del gol decisivo nella finale con la Francia, ha regalato diversi anni della sua carriera ai francesi del Lione. Vialli, Zola, Di Matteo, Di Canio rappresentano invece solo alcuni della folta truppa di italiani che prima hanno vestito la maglia di squadre inglesi e poi si sono seduti sulle panchine di club anglosassoni. Oggi invece “l’export calcistico made in Italy” vede giocatori italiani impegnati anche nei campionati cinesi (Diamanti, ex Bologna), mentre in Germania è appena approdato il capocannoniere Ciro Immobile. Per colorare i campi verdi con un po’ di azzurro.